Ranma ½ è il capolavoro indiscusso della celebre mangaka Rumiko Takahashi, pubblicato per la prima volta in Giappone nel 1987 e in Italia tre anni dopo.
Dal manga è stata tratta anche una serie animata, approdata sui teleschermi italiani nel 1996.
A partire da quel momento, le esilaranti peripezie di Ranma Saotome – protagonista della storia – non hanno mai smesso di appassionare generazioni di lettori e telespettatori.
La maledizione cinese
La vicenda narra le avventure di Ranma, il quale, durante un allenamento speciale di arti marziali, cade malauguratamente in una delle Sorgenti Maledette cinesi di Jusenkyo. La maledizione prevede che, chiunque cada in una delle sorgenti, sia destinato – non appena entri a contatto con dell’acqua fredda – a trasformarsi nella persona o nell’animale che vi era originariamente annegato migliaia di anni prima; l’unico modo per tornare al proprio aspetto originale sarà ogni volta bagnarsi con dell’acqua calda.
Nello specifico, la sorgente maledetta nella quale Ranma precipita è quella della “Ragazza annegata”. Si apre quindi per il protagonista una sequela di situazioni ambigue ed imbarazzanti; tra le tante, ricordiamo le insistenti avances da parte di personaggi maschili come Kuno, il quale, sinceramente convinto che Ranma sia una ragazza, cerca di conquistare il suo cuore.
Una costellazione di personaggi “a metà”
Già durante i primi capitoli della saga, emerge che Ranma non è l’unico ad essere caduto in una delle Sorgenti Maledette. Per non citarne che alcuni, vi è Genma, suo padre, caduto nella sorgente del Panda; Ryoga, in quella del porcellino nero e Shampoo, in quella del gatto.
Eppure, fin dall’inizio della storia, alla maledizione di Ranma è assegnato un tono velatamente più drammatico. Verrebbe da pensare che la scelta di questo diverso accento voglia semplicemente rimarcare che la sventura di Ranma è il perno della storia. A ben guardare, ciò che rende la sua una maledizione insopportabile è l’aver perso la solidità della sua identità virile.
In una società come quella giapponese, contraddistinta da una rigida distinzione dei ruoli sulla base del genere d’appartenenza, Ranma è ferito nel suo orgoglio di maschio. È infatti costretto a convivere con una crepa interiore che minaccia di incrinare, nel profondo, l’equilibrio sancito dal “copione sociale” nel quale era cresciuto.
La finalità di Ranma sarà quella di trovare un modo per annullare la maledizione, in modo tale da poter recuperare la sua confortante virilità.
Ranma½ – il paradigma di un’identità più libera
A distanza di poco più di 30 anni dalla sua comparsa, Ranma½ offre una riflessione su quello che è senz’altro uno degli hot topics del nostro vivere quotidiano. Siamo veramente contenti di marcire nei compartimenti stagni nei quali la società ci imprigiona sulla base del nostro genere d’appartenenza?
Vogliamo ancora condizionare il libero comportamento dei nostri figli con sentenze quali “i maschi non piangono mai”, “le femmine devono sempre essere carine e gentili”?
Ranma, con la sua doppia identità, finisce per ritrovarsi alternativamente vittima, reale o potenziale, delle imposizioni fatte all’uno e all’altro genere.
Ma, a ben guardare, egli potrebbe essere visto come l’emblema -anche se caricaturale- di quello che dovrebbe essere un individuo completo. Una personalità sana è infatti quella nella quale confluiscono tanto le virtù tradizionalmente attribuite al “maschile”, quali coraggio e forza combattiva, quanto quelle “femminili”, quali contatto con le emozioni e gentilezza. A onor del vero, si tratta di sfumature identitarie presenti in qualunque essere umano, ed erroneamente coltivate o incoraggiate soltanto in base al genere d’appartenenza della persona.
Valeria Di Maro