Nymphomaniac: una lunga idea di umanità secondo Lars Von Trier

Lars Von Trier è un regista che fa parlare molto di sé. E Nymphomaniac (2013) ne è un significativo esempio, al pari di Dogville (2003), di Antichrist (2009) e dell’ultimo e discutibile La casa di Jack (2018). Il film conclude una “trilogia della depressione”, iniziata nel 2009, in cui il regista, attraverso tematiche, storie e personaggi disturbanti, dice di aver illustrato ed espresso tale malattia.

N.B. Da qui in avanti saranno presenti spoiler sulla trama della pellicola.

Nymphomaniac: un lungo film

Nymphomaniac è probabilmente tra le opere più significative di Von Trier, sia per ampiezza che per argomento. Pubblicato in due versioni, una “ridotta” di 4 ore e meno esplicita pensata per le sale cinematografiche e una integrale di 313 minuti per l’home video, è probabilmente tra i film più lunghi degli ultimi anni.

Nonostante sia diviso in due sezioni (Nymphomaniac vol I e II), l’autore concepì
Nymphomaniac come un’opera unitaria. Nelle sue mani la tematica della ninfomania diventa un immenso scrigno, da cui far uscire numerosi lati dell’essere umano e delle sue comunità.

Avere dei dubbi su un film come Nymphomaniac è legittimo. Von Trier non nasconde mai il suo lato eccentrico né è difficile sospettare un certo narcisismo. Tuttavia, liquidare il titolo come un’operazione pretestuosa e noiosa, farcita di pornografia immotivata in cerca di legittimazione artistica, significherebbe minimizzarne le qualità.

Regia, montaggio e sceneggiatura riescono, infatti, a tener viva l’attenzione. Il variare di tecniche registiche e dei contesti sono il tramite di un’analisi ambiziosa. La narrazione e i dialoghi accompagnano la lunga e di certo impegnativa visione senza stufare. Al pari di grandi “romanzi-mondo”, moderni e post, di centinaia di pagine, Nymphomaniac impone una visione più lunga del solito per dispiegare tutti i suoi elementi.

Nymphomaniac

Umanità e sesso in Nymphomaniac

Come nelle  migliori tradizioni narrative, due persone si incontrano e condividono le proprie esperienze e conoscenze. Joe (Charlotte Gainsborough), soccorsa e ospitata a casa dell’anziano Seligman (Stellan Skarsgård), racconta la sua storia, legata alla ninfomania. I due, geometricamente opposti (uno è anziano e ancora vergine mentre l’altra è più giovane ma con un’ampia esperienza sessuale), instaurano un gioco di rimandi che prosegue in tutto il film. La narrazione si snoda lungo otto capitoli, ognuno a suo modo tematico e imperniato su parallelismi suggeriti dall’ospite. L’incedere narrativo quasi mai serrato, anche se raramente noioso, non si limita allo spaccato di vita. L’aspirazione a restituire la vera essenza di una persona è chiara, soffermandosi su ogni evento che ha potuto influire su di essa e renderla ciò che è.

È noto che Von Trier abbia una visione cruda della realtà, con una lettura della morale come illusione culturale e protettiva a volte stucchevole. Tuttavia, in questa sua visione del mondo, si intravede sempre un nucleo primordiale, pulsionale dell’umano, spesso adiacente alla perversione e all’eccesso. Un elemento ammaliante e orrendo al contempo. Proprio per questo la ninfomania e, più in generale, la malattia, diventano il filtro attraverso cui far passare l’essere umano. È attraverso il caso patologico, l’oltrepassare il limite, che si descrive e mette a nudo la condizione di normalità.

Nymphomaniac

Sprofondare in se stessi

Scoperta la sua passione patologica per il sesso, fin da bambina, Joe ne esplorerà ogni ambito. Infanzia, adolescenza, giovinezza, maturità, ogni fase sarà segnata da qualche nuova scoperta, dalla masturbazione al coito, passando per orge e sadomasochismo, fino ad arrivare all’omosessualità, in una struttura quasi circolare. Il dialogo con Seligman ruota intorno alla volontà di Joe di dimostrare quanto la ninfomania l’abbia portata a compiere azioni deprecabili. Ma il suo interlocutore esamina con cinismo ogni evento, scovando richiami e similitudini di ogni genere e cercando di confutare il pessimismo della narratrice. Di questi interventi, il più riuscito è sicuramente il primo tra la pesca e la gara tra Joe e una sua amica, dove le due cercano di avere più rapporti possibile durante un viaggio in treno.

Nonostante i tentativi di giustificazione di Seligman, nell’arco della prima parte assistiamo a scene drammatiche. Una fra tutte, grottesca ed alienante, quella in cui fa la sua comparsa Uma Thurman, moglie tradita da uno dei tanti compagni di Joe. La rabbia della donna evidenzia le conseguenze di una patologia lasciata a piede libero, ma anche del male che si può fare al prossimo con poco sforzo e senza consapevolezza. Col proseguire degli eventi, lo sfaldamento di qualsiasi riguardo e buon senso è sempre più radicale. Tentativi di instaurare una quotidianità normale vengono compromessi da un’esplorazione sempre più capillare della sessualità. L’affermazione della propria indole prende il sopravvento su qualsiasi forma di contatto con l’altro. E ogni tentativo di riemergere da questo abisso è stroncato da tradimenti e disillusione.

Nymphomaniac

Uno strano tabù

Telecamera in spalla, anche se ormai lontano dai dettami del Dogma 95, Von Trier riprende le scene esplicite in modo originale. Non lo fa nel modo schietto e senza fronzoli della pornografia, ma neanche in quello pieno di mistificazioni tipico di molti film. Si rappresenta la realtà di questi gesti, il loro carattere pulsionale, fino alla perversione, ma anche la loro disarmante semplicità.

Tale realismo, adoperato per parlare del sesso e usarlo come strumento narrativo, gioca anche con il tabù del sesso. Un tabù dai confini curiosi, contestuale ad una società disinibita e trasparente, ma che ha al contempo timore di fare i conti con sé stessa. Le manifestazioni di pudore e rigetto, o anche di banalizzazione, che un film come Nymphomaniac non ha mancato di suscitare, sono significative. Indicano che, per quanto sdoganato e reso fruibile in tanti modi, il sesso resta un argomento che non sempre si vuole affrontare.

Joe come metafora

Si potrebbe concludere dicendo che l’egoismo e l’indifferenza, l’incapacità di andare oltre i propri interessi e bisogni, siano una parabola familiare. Anche se con disgusto e non esplicitamente, Joe suscita una sorta di empatia. Certo, ognuno fa i propri distinguo e l’artista mette in campo situazioni limite per caricare espressivamente l’oggetto di indagine. Ma, rimosse le differenze, si arriva ad un fondo in cui tutte le persone condividono un orizzonte irrazionale e ferino. L’espressione di questo fondo è eterogenea, ma l’origine è la medesima. Il singolo e la comunità tentano di educare e incanalare questa pulsione animale ed egoistica. Tuttavia, secondo Von Trier, ci si infrange sempre su un muro invalicabile, che è l’io come autoaffermazione molteplice, come dispiegarsi di desideri, in primis quelli di emergere e sopravvivere. Molteplicità che trova espressione nel paragone con la polifonia compositiva.

Joe non può negare ciò che è e rivendica con forza la sua condizione. Proprio questa priorità fa emergere la solitudine come cifra principale dell’essere umano. E proprio la molteplicità dell’io sembra costringere alla solitudine, perché impone uno sforzo così grande che allontana dal resto del mondo e dagli altri. Il contatto avviene, superficialmente, ma il versante interiore assorbe sempre tutta l’attenzione. Contenere in un unico corpo i vari sé è una lotta perpetua e sfiancante.

Joe, assurgendo ad archetipo di questa visione del regista, può dire di aver provato tutto e aver toccato davvero il proverbiale fondo. Di seguito, nel parossismo della sua malattia, può anche concedersi il lusso di intravedere uno sfuggente spiraglio di riscatto. Una chance per iniziare a risalire, immediatamente sconfessata dal regista con un finale traumatico e disarmante. L’ambizione di guardare in alto e provarci resta, ma nella veste di illusione ingenua da cui difendersi a colpi di pistola.

Nymphomaniac

Giovanni Di Rienzo