Il problema della fine del mondo costituisce uno dei temi fondamentali della riflessione di Ernesto de Martino. Sul concetto di fine si concentrano soprattutto gli ultimi contributi, editi ed inediti, dello studioso napoletano. Tuttavia, è nell’opera postuma, intitolata appunto La fine del mondo, che si raccoglie la più intensa riflessione sul senso del finire.
Ma che cosa intende Ernesto de Martino per fine del mondo?
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La crisi della presenza
L’indagine sul problema della fine del mondo segna un cambiamento di rotta nella produzione del filosofo napoletano. Fino agli anni ’60, infatti, l’attività teorica dello studioso risulta orientata al tema della crisi della presenza. Con l’espressione “crisi della presenza” egli fa riferimento alla difficoltà di non riuscire ad oltrepassare i momenti critici dell’esistenza. Un rischio, quest’ultimo, che costituisce un pericolo ineliminabile per ogni essere umano e che è vissuto con maggiore intensità fra i gruppi umani di limitato sviluppo culturale.
Le numerose spedizioni etnografiche nel Sud d’Italia dunque rispondono all’esigenza di documentare sul campo il verificarsi della crisi della presenza. Tutte le osservazioni raccolte sono poi affidate da Ernesto De Martino ai volumi della cosiddetta trilogia meridionalista: Morte e pianto rituale nel mondo antico, Sud e Magia, La terra del rimorso.
Il concetto di fine del mondo nella riflessione di De Martino
L’opera incompiuta del filosofo napoletano, La fine del mondo, segna pertanto un approfondimento del tema della crisi della presenza. Il pericolo di crollare, di arrendersi, al cospetto di una difficoltà considerata insormontabile, non riguarda soltanto l’individuo, ma anche la collettività. Le società umane, ovvero ‘’i mondi culturali’’, sono allo stesso modo esposte al rischio di dissolversi senza compenso nei momenti di crisi.
Che il mondo può finire, allora, non significa soltanto che una catastrofe naturale o cosmica può distruggere e spazzare via il pianeta terra. Il finire è anzitutto un pericolo che riguarda l’umanità. Egli infatti scrive: «la società degli uomini attraversata da valori umani e operabile secondo questi valori» ad essere attraversata costantemente dalla possibilità di crollare. Perciò, aggiunge:
Per un verso il mondo, cioè, la società degli uomini attraversata da valori umani e operabile secondo questi valori, non deve finire, anche se – ed anzi proprio perché – i singoli individui fruiscono di una esistenza finita; per un altro verso il mondo può finire, e non tanto nel senso naturalistico di una catastrofe cosmica che può distruggere o rendere inabitabile il pianeta terra, ma proprio nel senso che l’umana civiltà può autoannientarsi, perdere il senso dei valori intersoggettivi della vita umana, e impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura secondo una modalità che è priva di senso per eccellenza, cioè per annientare la stessa possibilità della cultura.
La crisi della civiltà occidentale
È soprattutto alla possibilità di annientamento della cultura che Ernesto De Martino rivolge la sua indagine. Una minaccia, questa, che si estende a tutta la civiltà occidentale contemporanea.
Nel mondo occidentale, infatti, egli legge i sintomi di una malattia diffusa, che si manifesta nelle forme più varie di espressione culturale, dall’arte alla poesia. La manifestazione più esplicita della crisi di civiltà che ha colpito l’occidente è descritta in numerose opere, da La nausea di Sartre a La noia di Moravia.
Nei romanzi dei due scrittori contemporanei De Martino rintraccia una comune tendenza apocalittica. Si tratta dell’affiorare di un intenso senso del finire che non lascia spazio a nessuna possibile risoluzione. Perciò, egli parla di apocalisse culturale, indicando con questa terminologia l’esperienza del declino della civiltà. Tra l’altro, l’aver mutuato dal lessico religioso la parola “apocalisse” consente a De Martino di conferire un doppio significato al tema culturale della fine.
Ernesto De Martino: le apocalissi culturali
Nel lessico religioso l’apocalisse indica l’annuncio di un nuovo mondo che avrà luogo alla fine dei tempi. Per il Cristianesimo, ad esempio, l’Apocalisse di Giovanni è la Rivelazione del Regno dei Cieli, che sarà instaurato alla fine del mondo attuale col ritorno di Cristo. Il mito apocalittico racchiude in sé la visione di un nuovo mondo. Si tratta di un’escatologia che oppone al rischio di una fine definitiva la speranza di un migliore avvenire.
Le apocalissi culturali sono allora da intendersi come “rivolgimenti” che rimandano sia alla fine di un mondo, ovvero di un’epoca culturale, sia all’inizio di un altro mondo. Nel concetto di apocalissi Ernesto De Martino condensa tanto il momento critico del declino di una civiltà quanto il momento del riscatto culturale. Egli, però, si interroga sulla direzione di marcia dell’apocalittica in atto in Occidente, nel tentativo di comprendere se sia davvero possibile un riscatto dalla crisi.
Il documento psicopatologico
Nel condurre la propria indagine sulla fine del mondo occidentale, si lascia guidare dagli strumenti della psichiatria. Chi è affetto da una malattia mentale, secondo lo studioso, vive la più intensa esperienza della fine del mondo. Nei casi di schizofrenia più gravi i pazienti dichiarano di non sentirsi più a casa nel mondo, di vivere in uno stato di smarrimento, di insensatezza, di apatia, di mancanza di forza.
In questa situazione morbosa la condizione umana si rivela in tutta la sua nudità di esistenza precaria, una precarietà che, come abbiamo detto, riguarda uomini e culture.
Ma se nelle apocalissi psicopatologiche a mancare è proprio il momento del riscatto, le apocalissi culturali si distinguono dalle prime per il loro carattere produttivo. Come clinico della cultura De Martino si propone l’obiettivo di valutare la natura dell’apocalittica contemporanea, nel tentativo di elaborarne una diagnosi.
Una risposta etico-politica alla crisi
Secondo Ernesto de Martino il sintomo più acuto del declino della nostra civiltà è rappresentato dal crollo dell’ethos del trascendimento. L’ ethos del trascendimento indica la forza di tipo morale che sostiene ogni azione umana. Si tratta di una ‘’volontà di storia’’ che guida l’individuo a trascendere la circolarità della vita naturale verso il lavoro, la creazione di opere culturali, la partecipazione a progetti comunitari. In virtù di questo slancio il singolo si apre all’altro e al mondo dell’intersoggettività. Nell’epoca attuale assistiamo ad un grave irrigidimento di questo slancio. Gli effetti più gravi del crollo dell’ethos si rendono visibili soprattutto nell’individualismo dilagante nella società occidentale, che vede opporre uomo a uomo, comunità a comunità.
Il filosofo fa appello all’umanesimo integrale, ossia ad una visione del mondo non entocentrica, aperta al riconoscimento della dignità di tutte le comunità, poiché «tutte le culture – scrive lo studioso – sono la testimonianza di una lotta contro la tentazione del nulla». Al contempo, è necessario recuperare un ideale di umanità più centrato sull’esperienza intersoggettiva. Sul piano politico ciò corrisponde alla costruzione di una democrazia socialista, in cui l’uomo sia uomo per l’altro uomo, in un’ opera di comune valorizzazione della vita.
Io non debbo mai essere solo: ecco l’imperativo etico fondamentale che fonda la mia persona, e che al tempo stesso fonda la intersoggettività delle… distinte valorizzazioni della vita […]
Martina Dell’Annunizata
Bibliografia
Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1977), a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 2002
L’immagine di copertina è stata ripresa dal sito:
https://journals.openedition.org/gradhiva/3187