Un tipo di cinema legato ai valori e ai principi dell’arte giapponese, quello di Takeshi Kitano, che in Brother (2000) trova la sua piena espressione. In questa pellicola, la nona del regista nipponico, riemergono numerosi elementi della sua filmografia: dalla comicità alla violenza spietata della yakuza. Aspetti questi che regalano, agli spettatori, lavori intrisi di risate accompagnate da una schietta analisi della società contemporanea.
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Qualche notizia biografica
Takeshi Kitano nasce pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, il 18 gennaio del 1947, a Tokyo. Cresce in una della zone più povere della capitale giapponese (il quartiere Senju) dove arriva con la madre e i fratelli, dopo essere stato abbandonato dal padre (un pittore e decoratore con problemi di alcolismo, scappato dalla famiglia poiché sommerso di debiti).
I primi passi di Takeshi Kitano nel mondo dello spettacolo
Takeshi Kitano debutta nel mondo dello spettacolo come artista di cabaret. Egli vanta anche una grande predisposizione per la danza ed il canto, competenze che affinerà nei vari night club di Tokyo, alimentando quella vena satirica e dissacrante che caratterizzerà i suoi film. Con un suo collega e amico Kaneko Kiyoshi, fonderà poi il duo comico Two beats. Il loro repertorio ha come fulcro principale il manzai (un tipo di sketch costituito da un dialogo serrato tra un attore principale e una spalla).
Da questa esperienza, Takeshi Kitano acquisirà il nomignolo “Beat Takeshi” che userà come nome da attore. Come regista, invece, continuerà ad adoperare il proprio nome di battesimo. Ma il suo raggio d’azione non si ferma a questo, propagandosi nel mondo televisivo, grazie al quale diventerà famoso in tutto il Giappone. Suo è ad esempio Takeshi’s castle: un gioco televisivo dove diversi concorrenti si affrontano su un folle percorso ad ostacoli. Un carriera eclettica e ricca di colpi ad effetto: una personalità capace di far fruttare tantissime idee fresche e innovative.
Brother: la genesi
Takeshi Kitano si pone a capo di un progetto che vede la cooperazione di troupe giapponesi e americane sullo stesso set. Su proposta del produttore Jeremy Thomas (in occasione di un incontro ad un festival cinematografico a Londra) prende vita, dopo tre anni di lavoro, il film Brother.
Questo racconto vede la commistione, rara nel genere, di diversi universi. Dalla storia stessa, con la creazione, scena dopo scena, di un gruppo criminale sempre più etnicamente variegato (messicani, afroamericani e giapponesi); fino all’unione, ben riuscita, di due rappresentazioni culturali agli antipodi, quella del crimine giapponese e di quello statunitense.
La trama del film
Yamamoto (Beat Takeshi) è uno spietato criminale giapponese che per salvarsi da morte certa dopo aver preso parte a una guerra tra famiglie affiliate alla yakuza, scappa a Los Angeles dal fratello adottivo Ken. Qui, insieme a lui, costituirà una banda criminale di stampo mafioso. Tra omicidi e faide con gruppi rivali, nasce un’inaspettata amicizia tra lo stesso Yamamoto e Denny (Omar Depps), un ragazzo afroamericano membro della sua banda. Nella sua continua espansione, il gruppo criminale nipponico si scontrerà poi con la mafia italiana, dando inizio a una carneficina.
Yamamoto, un personaggio in bilico tra violenza e comicità
Come un vento pestilenziale, Yamamoto arriva negli Stati Uniti portando con sé violenza e morte. Come se lo scontro intrapreso in patria, nel seno della yakuza, non avesse mai avuto fine. Una sete di espansione e sangue sembra occupare perennemente la mente del personaggio, in totale contrasto con il suo aspetto esile e innocuo.
In aggiunta al costante insistere sul ruolo della violenza fisica, nella caratterizzazione di Yamamoto si dà molta importanza all’elemento comico, trasformandolo in un personaggio paradossale. Il suo camminare per le strade di Los Angeles con andatura goffa e barcollante, ricorda, ad esempio, Chaplin e il suo Charlot. L’accostamento, per quanto forzato, ci aiuta a mettere sullo stesso piano due mondi opposti che, anche se per poco, si sfiorano. Infatti, la leggendaria pantomima del regista di Luci della città (1931), sembra rivivere nella presentazione dello yakuza atipico di Kitano; come se il regista giapponese attuasse una trasposizione dell’arte di Charlot per raccontare il mondo criminale della yakuza con il tipico distacco del comico.
La recitazione “essenziale” di Takeshi Kitano
Oltre alla derivazione chapliniana la mimica di Kitano, essenziale e minimalista, è figlia anche della tradizione del teatro nipponico. Gesti misurati ed estremamente necessari guidano la sua performance (e quella degli altri attori) creando un ponte diretto con la tradizione scenica del teatro nō. Legame sottolineato dallo stesso regista in occasione di un’intervista rilasciata a Luciano Barcaroli, Carlo Hintermann e Daniele Villa (dalla quale, verranno tratte tutte le citazioni presenti in questo articolo): «(…) potrei usare, per esempio, le maschere del teatro Nō, una forma di rappresentazione teatrale classica del Giappone. (…) Se la recitazione è condotta in modo da esagerare l’espressività, si finisce per rubare l’immaginazione agli spettatori e la rappresentazione resta una semplice rappresentazione. Quello che chiedo agli attori che lavorano nei miei film è il loro senso dell’esistenza, non una rappresentazione.»
Le origini del teatro nō
Il distacco che separa i principi della rappresentazione tipici dell’arte orientale (sia teatrale che cinematografica) da quelli occidentali, ha origine dalle differenze culturali dovute alle rispettive evoluzioni storiche. L’arte asiatica s’è sempre mossa sui binari di una produzione esigua ed essenziale (le composizioni poetiche degli haiku ne sono una dimostrazione), anche in ambito teatrale, come nel sopracitato teatro nō.
Nato nel Giappone del XIV secolo, questo tipo di teatro prevede un racconto che si sviluppa su di una scena spoglia, con un fondale che riporta il dipinto di un pino (simbolo legato al culto shintoista) e un coro che accompagna le azioni degli attori e, soprattutto, dello shite (l’attore principale). Gli interpreti calcano la scena con indosso abiti di broccato di seta e interpretano varie storie con il solo uso della pantomima. Un mondo questo dal quale Takeshi Kitano sembra attingere a piene mani per raccontare il Giappone di oggi.
…e la rappresentazione della yakuza
Anche il mondo della yakuza, che ricopre un’importanza paragonabile a quello del teatro
nō nella produzione di Takeshi Kitano, affonda le sue radici nel Giappone feudale. Le sue origini sono, infatti, rintracciabili nelle bande armate formatesi dopo la riunificazione Togukawa (1603-1868). La moderna yakuza discende da due di esse, quella dei bakuto, biscazzieri e giocatori d’azzardo, e quella dei tekiya, venditori ambulanti. La prima riuscì ad ottenere il monopolio del gioco d’azzardo grazie al sostegno di funzionari governativi che, per sostenere le spese salariali dei propri operai, ripiegavano sul loro supporto economico. La seconda, invece, crebbe grazie agli introiti derivanti dall’estorsione e dall’incasso di tangenti per la protezione dei chioschi.
Oya e Ko: i pilastri della yakuza
La yakuza contemporanea vanta una struttura piramidale che ruota attorno a due perni fondamentali: Oya e Ko, rispettivamente padre e figlio. Con l’aggiunta del suffisso bun (che ha il significato di compito, ruolo) si delinea un rapporto di assoluta fedeltà tra lo Oya-bun e il Ko-bun; rapporto basilare all’interno della società giapponese. Si distinguono, ancora, fra i Ko-bun i fratelli maggiori Aniki (che nel film diventa il soprannome di Yamamoto) e minori, Shatei. Il legame padre-figlio rappresenta un vincolo coriaceo, che lega tutta l’organizzazione. Per questo vincolo, uno yakuza è pronto ad amputare e lacerare parti del suo corpo, per saldare il patto di fedeltà con il sangue. Da qui, le pratiche dello yubitsume (amputazione del dito) e dell’hara-kiri (sventramento).
Il terreno valoriale della yakuza
Il terreno sopra il quale vive tale struttura è un complesso di valori che contraddistingue, non solo questo apparato criminale, ma anche tutta la società nipponica creando, paradossalmente, un legame grazie al quale gli yakuza vengono riconosciuti dal popolo; un universo valoriale che si fonda su due concetti basilari: giri e ninjo. Il termine giri, sta ad indicare l’obbligo sociale (come ripagare un debito di denaro, o, non escluso, il compimento di una vendetta di sangue) mentre ninjo, un aspetto puramente sentimentale, l’importanza del rispetto dei propri affetti e, ancora, la generosità verso i più deboli.
Nel connubio tra tali elementi risiede la particolarità del sistema yakuza: la sua costituzione valoriale permette di insidiarsi nella società giapponese come un mondo riconosciuto. Sorgono, infatti, uffici e istituti lungo le strade in molte delle città più importanti. Da reietti della società (lo stesso termine yakuza deriva dalla sequenza perdente del gioco hanafunda: 8-9-3, ya-ku-za), discendenti da bande armate, ecco gli yakuza moderni ; all’apice del potere criminale, nazionale e internazionale, del gioco d’azzardo e del traffico di sostanze stupefacenti.
Takeshi Kitano e la via del sacrificio
In linea con i legami storici con gli antichi samurai, per uno yakuza è necessario imporre alla propria vita un percorso che porti alla morte, come scelta primaria che guidi ogni aspetto della propria esistenza. Conseguentemente a tale ideale, gli yakuza sul proprio corpo riportano vistosissimi tatuaggi (molte volte di matrice religiosa) che simboleggiano il sacrificio di chi si sottopone a tali pratiche. In Brother, una delle linee tematiche principali percorse da Takeshi Kitano è, appunto, l’importanza del sacrificarsi per gli altri. Come Kato che sacrifica con un colpo di pistola alla testa, davanti agli occhi increduli del boss Shirase, la propria vita ad Aniki, con il fine di glorificare il nome del suo capo famiglia.
Il valore dei legami, familiari e amicali
Sull’importanza del sacrificio, è giusto ricordare anche la scelta di Aniki di salvare Denny da una morte sicura per mano della mafia italiana. La sequenza finale su Omar Depps ci restituisce tutta l’essenza del legame tra i due personaggi, divenuto molto forte nonostante gli iniziali dissapori: primo piano su Denny al volante che scappa dallo sterminio ai danni della sua banda. Notiamo, sul suo volto, l’evolversi dell’intera vicenda. Poi, apre la borsa alla sua destra: è piena di dollari accompagnati da un bigliettino. È da parte di Aniki. Finalmente comprende tutto: grazie a lui, è salvo.
Per tutto il film, in parallelo con la crescita del gruppo criminale, vi è quella del legame tra i due. Risulta necessario, per Aniki, creare una dimensione di vita opposta a quella delle guerre di mafia. Un vincolo amicale che dona un soffio di serenità allo stesso yakuza e alla narrazione in generale. Insieme ad una loro cruciale importanza, i legami sono detentori di una particolare bellezza che lo stesso Kitano menziona parlando di Brother: «Dunque, io volevo mostrare in questo film il sacrificio di se stessi. Un concetto che nella tradizione giapponese, soprattutto nell’epoca dei samurai, è sempre stato centrale. Il sacrificio di se stessi viene considerato nella tradizione giapponese come un atto di bellezza».
L’importanza del gioco
La forte matrice comica di Takeshi Kitano, figlia dei primordi della sua carriera, viene “rimodellata” al servizio del linguaggio cinematografico. Tale matrice diviene uno strumento che ha un preciso scopo drammaturgico: un intermezzo ludico calato tra le varie scene. Da tale stile, è possibile immergersi in storie sì sanguinolente, ma presentate sempre con un filtro umoristico. Racconti che sono, grazie a questa personalissima visione di Kitano, unici nel loro genere.
In Brother, i vari giochi tra Yamamoto e Denny rappresentano, ad esempio, tappe di avvicinamento e di crescita nel loro rapporto. Oltre allo scopo narratologico, c’è anche un altro significato dietro questa insistita comicità, come lo stesso regista ci rivela: «(…) Di solito l’elemento del gioco deve essere un cuscino che attutisce la durezza del percorso che conduce alla morte. Se mostrassi solamente la via che conduce un personaggio alla morte il film perderebbe una dimensione, la sua profondità, sarebbe più scontato». E ancora: « (…) faccio sempre un paragone con la cucina giapponese, in cui per realizzare un piatto salato spesso si aggiunge appositamente lo zucchero, per creare un gusto contraddittorio, in cui gli elementi giochino tra loro. L’elemento del gioco nei miei film ha questa funzione e lo inserisco appositamente».
Antonio Turco