Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino: on solo libro, ma teatro di vita che ha dominato gli anni dal ’75 al ’79 a Berlino e in tutta l’Europa ricca.
Tragedia: opera o rappresentazione drammatica, nata nell’antica Grecia, che si caratterizza per il tono e lo stile elevato e per uno svolgimento segnato da gravi sofferenze e sventure. Insomma, in poche parole, la classica storia che “inizia bene e finisce male”, come Dante la definì nella tredicesima epistola a Cangrande della Scala.
Pian piano il termine, come non di rado accade, ha quasi del tutto perso i suoi connotati squisitamente letterari arrivando ad invadere, con conseguente banalizzazione, il nostro linguaggio quotidiano. Tragico è qualcosa di terribile, ma anche inaspettato, quasi assurdo per certi versi. Tragico è relegato al di fuori del normale: sono storie da libri o da film, non c’è nient’altro da dire. Peccato che spesso non ci si accorga che ciò che chiamiamo “tragedia” è sotto i nostri occhi tutti i giorni, nascosta dal silenzio complice del mondo.
Ed ecco che proprio la letteratura si è fatta portavoce di una storia, una storia iniziata a Berlino negli anni Settanta. Christiane, nota in tutto il mondo come Christiane F., ha dodici anni e vive a Gropiusstadt. Frequenta il Sound e inizia a fumare hashish; nel giro di pochissimi mesi arriva ad infilarsi un ago nel braccio, precipitando in un abisso interminabile.
Quella di Christiane è una tragedia, come quelle scritte nei libri o viste nei film, ma c’è un dettaglio che non va tralasciato: è tremendamente e orribilmente vera. A raccontarla è proprio lei, la protagonista, e lo fa parlando con due giornalisti dello “Stern”: Kai Hermann e Horst Rieck. Una sorta di neorealismo della droga, in cui, alle spalle di Christiane, si alza forte e decisa la voce di un’intera generazione. Ma, al contrario di quanto converrebbe ad uno stile tragico, il tono non è mai elevato: al contrario, è nudo e crudo. Scuote e percuote di nuovo l’anima del lettore il quale, pian piano, si rende conto che Christiane parla come parleremmo noi, come parlerebbe una ragazzina di dodici anni, una figlia o una nipote, laddove ci aspetteremmo tanto eloquente quanto un Amleto o un Macbeth.
Indice dell'articolo
Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino di Christiane F.: il “classico” del dolore
Ecco perché questo libro dovrebbe circolare come un classico, un classico del dolore e dell’orrore. Il dolore di una ragazza di dodici anni che vede tutto il mondo in una bustina di acido o eroina; l’orrore di una società “avanzata”, quella dell’Europa ricca, che vede solo quello che vuole vedere e in cui certi drammi sono ormai passati di moda. Questa civiltà non è soltanto di Berlino e degli anni Settanta, ed è pronta solo a punire e giudicare il tossico come uno scarto da ignorare e eliminare.
“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” non è un libro che serve ad intrattenere: è un disperato grido che vuole risvegliare le coscienze di fronte ad un problema che le persone sembrano stanche di ascoltare, e ricordare al mondo che dietro al male non c’è un evento fortuito, o la Dea Fortuna, ma solo ed esclusivamente la firma dell’uomo.
Un doloroso risveglio
Dopo l’uscita di “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”, il mondo si è risvegliato più triste, più impotente e più colpevole. Perché, occorre dirlo, sul problema della droga la nostra società ha miseramente fallito, e ci sono ancora tante, troppe, Christiane F. Ragazze, o ragazzi, la cui storia non si fa più libro e nemmeno necrologio. Proprio come in una tragedia dove il male ancora non c’è ma già si annuncia, così Christiane non diventa eroinomane il giorno in cui si infila il primo ago nel braccio. Anzi, comincia a sette o otto anni la sua storia, in un pezzo di famiglia che contiene tutto il male già prossimo a venire: il “disoccupato con la Porsche”, suo padre.
[…] Lui prendeva lo scopettone e me le dava da matti […] Tirò via dal vaso la canna di bambù che reggeva il ficus. Quindi mi picchiò sul sedere finché la pelle letteralmente non mi si staccò a pezzi […] E quando di notte vedeva disordine, mi tirava fuori dal letto e mi picchiava.
Gli anni seguenti sono tutte piccole manifestazioni, in cui le sostanze chimiche mascherano un dolore ed un malessere fatti di finto eroismo.
A dieci anni ho iniziato anche a rubare. Imparai il gioco di esercitare il potere sugli altri.
Una storia di droga, dunque, che prende l’avvio ben prima, ed anche quando la droga è ormai evidente, è più facile chiudere gli occhi come si era fatto fino a quel punto.
La madre di Christiane racconta:
Quella domenica in cui vidi gli schizzi di sangue nel bagno e ispezionai il braccio di Christiane mi cadde la benda davanti agli occhi. Fu un colpo durissimo. Fu come se Christiane mi presentasse, per così dire, la ricevuta della mia educazione, della quale ero stata così orgogliosa. Adesso mi accorgevo che avevo sbagliato tutto, e questo solo perché non volevo ripetere gli errori dell’educazione che mi aveva dato mio padre.
E se il flusso del racconto non fosse interrotto qua e là da stralci degli atti del processo e da reali testimonianze, il lettore non crederebbe mai di avere davanti a sé pagine di storia e di vita vera. Vengono in mente L’inferno di Dante, i Ragazzi di vita di Pasolini, le tragedie di Shakespeare. Eppure in Christiane F. non c’è spazio per erudite digressioni, le parole sono pugni dentro, la letteratura diventa documento storico vivo, crudo e spoglio di ogni fantasia retorica.
Un mondo parallelo, quello della droga
Ogni storia ha il proprio spazio di azione; così anche “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” ha il suo. È un mondo diverso, ed è proprio dentro quello che si presenta “normale”. Il libro di Christiane F. mostra con assoluta chiarezza come il mondo della droga sia veramente un “mondo”, inteso come dinamica esistenziale dei personaggi che lo abitano. È qui che si collocano gli affetti: Detlef, il primo amore, Babsi, Stella e tutte le amicizie più strette.
Gli oggetti, le relazioni, tutto va visto diversamente nelle sue caratteristiche percettive e tutto ha un significato differente. I normali discorsi tra amici al bar sono sostituiti da conversazioni incentrate su droga e prostituzione; l’amore non dà in regalo fiori e cioccolatini, ma i soldi per la prossima dose. Detlef, così come gli amici di Christiane, possono correre a prostituirsi se lei è in astinenza; e questo è affetto.
L’eroina ci rendeva fratelli. Eravamo tutti e tre uguali. […] Di nuovo mi sentii in famiglia, in una famiglia proprio bella.
Perché loro ci sono sempre, sono sempre al Bahnhof Zoo, ti sorridono e ti regalano l’eroina, non come tua madre che non c’è mai.
I ragazzi si legano l’uno all’altro, creando il loro piccolo spazio di vita, e le persone che ne sono fuori diventano inanimate, distaccate: il poliziotto, i servizi sociali e così via. Ecco allora il richiamo pressante e automatico di quel mondo, senza il quale non si sa che fare, non si sa chi si è davvero, e il passaggio da un mondo all’altro diventa sempre più difficile.
Senza rifletterci sopra granché mi ero già scissa in due persone radicalmente diverse. Scrivevo lettere a me stessa. Christiane scriveva lettere a Vera. Vera era il mio secondo nome. Christiane era la quattordicenne che voleva andare dalla nonna, in qualche modo era la buona; Vera era la bucomane. E le due litigavano ore per lettera.
Quando Christiane giunge nella cittadina vicino ad Amburgo da sua zia Evelyn, il suo smarrimento è totale.
La maggior parte degli studenti era comunque disinteressata. Un paio cercavano di diplomarsi con dei buoni voti per poi, forse, trovare, come studenti delle scuole professionali, un posto di apprendistato. A molto non gliene fregava nulla di quello che avrebbero fatto dopo. […] Le ragazze non si preoccupavano comunque. Per loro era stabilito che a un certo punto un tizio si sarebbe occupato di loro e fino a quel momento potevano fare le commesse da qualche parte, o trovare un posto nella catena di montaggio oppure stare ancora a casa. […] Assolutamente freddi, nessuna illusione e soprattutto nessun ideale. Questo mi buttava proprio giù. La vita senza la droga me l’ero immaginata diversamente.
Ecco che così due mondi vengono accostati: quello “per bene” appare così miserevole da far apparire preferibile quello della droga agli occhi di una ragazza che si sente senza possibilità. Perché, almeno lì, tutto si muove sul filo della vita e della morte, i rapporti sono essenziali e drammatici. E il dramma, di fronte alla banalità, finisce per essere più attraente.
Man mano però, anche la piccola bolla di sapone che Christiane aveva costruito intorno a sé e ai suoi affetti finisce per rompersi. Ogni mattina compera la “Bild Zeitung” per vedere i morti di droga e, poco a poco, vi ritrova tutti i suoi amici finché lei stessa giunge al “buco ultimo”, sola, in un bagno pubblico vicino al Bahnhof Zoo, con questa consolazione: forse anche lei un giorno avrebbe occupato due righe di quel noto giornale.
Martina Pedata
Fonti
Christiane F., Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, Bur rizzoli, Milano