C’è un momento della scrittura di Pavese in cui si possono rintracciare tutti i temi e le figure che comporranno la sua opera. Questo momento, ovviamente, è all’inizio della sua produzione. Lavorare stanca sta all’inizio del suo percorso di scrittore come una foresta di simboli già antica ed esistente. Incamminarsi ed esplorare questa foresta sarà la sola attività di Pavese per i successivi quattordici anni. Proviamo quindi a farci strada e a tracciare un percorso nell’universo simbolico di quest’opera, che possiede già tutti gli elementi dell’intera produzione di Pavese.
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Vicende editoriali e struttura
È il 1936 quando, per la prima volta, a Firenze, viene pubblicato Lavorare stanca. In quel momento Pavese è al confino a Brancaleone Calabro, un paesino in provincia di Reggio Calabria. Da lì per lui è difficile seguire la diffusione del testo e, riguardo il suo stato d’animo, così scrive al proprio professore del liceo, Augusto Monti, nell’agosto nel ’35: “Non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia.”
A pubblicare la raccolta è Alberto Carocci, allora direttore della rivista Solaria, a cui le poesie sono arrivate tramite Leone Ginzburg diversi anni prima. Rispetto all’originaria composizione, Lavorare stanca va in stampa privato di quattro titoli, censurati nella revisione della prefettura nell’anno precedente. Pavese commentò il giudizio del censore in una lettera inviata l’11 marzo del ’35 a Carocci in cui c’è tutta l’amarezza per la censura, espressa in tono ironico e sfrontato: “Mi attendevo l’onore della censura politica, e quelli me la fanno puritana”.
Il commento si riferisce al fatto che, rispetto alle preoccupazioni di Pavese riguardo il carattere politicamente “poco opportuno” di alcuni brani, come Legna verde o Una generazione, a subire il bavaglio furono testi condannati per oscenità come I pensieri di Deola, Il dio-caprone, Balletto e Paternità.
Senza questi quattro testi l’opera pubblicata nel ’36 contava quarantacinque brani ordinati più o meno cronologicamente. Una seconda edizione dell’opera uscì nel ’43 presso Einaudi: era composta da settanta brani suddivisi in sei sezioni tematiche e due piccoli saggi dell’autore sulla composizione della raccolta.
Lavorare stanca: una raccolta antiungarettiana
“Una delle voci più isolate della poesia contemporanea” era la fascetta dettata dallo stesso Pavese per questa seconda edizione di Lavorare stanca. La frase era corretta rispetto al contesto poetico circostante. Alla metà degli anni ’30 grandissima parte della produzione poetica nazionale rispettava la tendenza ermetica. L’ermetismo, nella poesia, rappresentava la corrente dominante e accentrava su di sé il discorso critico e l’attenzione del pubblico. Anche per questo all’inizio non furono poche le resistenze dell’editore, preoccupato per le vendite di un’opera così antiungarettiana e che, infatti, nel ’36 passò quasi inosservata.
Sciolto dalla tendenza ermetica, Pavese, come scrive nel primo dei saggi che accompagnano la raccolta: Il mestiere di poeta, sviluppò da sé il proprio verso. Sentendo precluso l’utilizzo di qualsiasi altro verso (“Nei metri tradizionali non avevo fiducia”), modulò da una propria cadenza interiore un verso lungo, da tredici o sedici sillabe, e ritmato. “E mi scopersi un giorno a modulare certa tiritera di parole secondo una cadenza enfatica che fin da bambino, nelle mie letture di romanzi, usavo segnare, rimormorando le frasi che più mi ossessionavano”.
Questo verso è disteso in lunghi componimenti – poesie-racconto – dalla forte vocazione narrativa. Lavorare stanca è un susseguirsi di brani lunghi (fino ai centotre versi dei Mari del Sud, e di media una trentina) che mostrano e descrivono azioni e situazioni di paesaggio, spesso presentate in terza persona, in cui sembra esserci poco spazio per l’io-lirico tradizionale. Versi e brani estesi, componimenti di carattere narrativo, un’esteriorità scarsamente sentimentale isolavano l’opera dal resto della produzione nazionale, ma le conferivano anche un’unicità orgogliosa.
“La composizione della raccolta è durata tre anni. Tre anni di giovinezza e di scoperte, durante i quali è naturale che la mia idea della poesia e insieme le mie capacità intuitive si sian venute approfondendo. […] ho dinanzi un’opera che m’interessa, non tanto perché composta da me, quanto perché, almeno un tempo, l’ho creduta quanto di meglio si stesse scrivendo in Italia e, ora come ora, sono l’uomo meglio preparato a comprenderla.”
Una delle voci più isolate
Ma la fascetta «Una delle voci più isolate della poesia contemporanea» era corretta anche rispetto al sentimento centrale alla raccolta: il senso di esclusione. Esclusione in primo luogo dalla vita, e dalla natura, dalla città e dalla campagna insieme, dal mito, dalla festa. Lo stendazzu: “L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio / e le stelle vacillano. […] Val la pena che il sole si levi dal mare / e la lunga giornata cominci? Domani / tornerà l’alba tiepida con la diafana luce / e sarà come ieri e mai nulla accadrà”.
E il senso di esclusione è tanto più forte perché si guarda la vita, se ne capisce la forza, ma non se ne può partecipare. L’istinto: “L’uomo vecchio, deluso di tutte le cose, / dalla soglia di casa nel tiepido sole / guarda il cane e la cagna sfogare l’istinto.”; Civiltà antica: “Il ragazzo vorrebbe uscir fuori / così nudo – la strada è di tutti – e affogare nel sole. / In città, non si può. Si potrebbe in campagna, se non fosse, sul capo, il profondo del cielo / che atterrisce e avvilisce.” Questa solitudine è spesso giocata, di sfondo, sui due poli caratteristici dell’opera di Pavese: la Campagna come figura d’infanzia mitica e la Città figura di una maturità colpevole.
L’esclusione è dovuta ad una sospensione tra i due estremi che lo caratterizza in negativo. Lo scrittore si sente un campagnolo in città ed un cittadino in campagna, un ragazzo tra le certezze monotone e mute della maturità, e un uomo dalla fantasia indurita, cacciato dall’incanto dell’infanzia. E la solitudine propria è un fatto di tutti, un fatto d’incomunicabilità. Nelle opere di Pavese nessuno parla davvero; e la donna ed il sesso, la loro distanza, sono figure dell’impossibilità di relazione reale con l’altro. La frustrazione sessuale, anche quando risolta, si mostra come un atto bestiale o l’illusione di un attimo.
In questa solitudine l’autore può solo cercare di sentirsi padrone di sé e con il lavoro e la disciplina tenere più dritta la schiena. Mania di solitudine: “Non importa la notte. Il quadrato di cielo / mi sussurra di tutti i fragori, e una stella minuta / si dibatte nel vuoto, lontano dai cibi, / dalle case, diversa. Non basta a se stessa, / e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo, / il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.”
Eravamo i ragazzi
Una figura nelle poesie di Pavese che sembra incarnare questa condizione d’esclusione perenne è quella del ragazzo. La natura di questa figura ha una valenza duplice nel sistema di riferimenti di Pavese: a volte incontriamo il ragazzo come giovane, al massimo momento di vita, ancora partecipe del mistero vitale; altre volte il ragazzo come adolescente, figura liminare tra infanzia e maturità, caratterizzata in negativo come né bambino né uomo.
Il primo tipo di ragazzo è espressione di una condizione di immersione nelle cose, assenza temporale e diritto all’esistenza, come si legge ne I due, dai Dialoghi con Leucò: “Da ragazzi si è come immortali, si guarda e si ride” e “Perché da ragazzi si uccide, ma non si sa cos’è la morte”.
Il secondo, invece, è il ragazzo che l’età porta a forza verso il modo degli uomini, che inizia all’alba il lavoro e già fuma e beve con gli altri; ma rispetto agli uomini riesce ancora a sentirsi stupefatto del mondo e, in qualche modo, chiamato per nome dai simboli della campagna. Il dio-caprone: “La campagna è un paese di verdi misteri / al ragazzo, che viene d’estate”.
Così questo secondo tipo di ragazzo, nella raccolta, non può far altro, ogni tanto, che scapparsene sulle colline. Esterno: “Quel ragazzo scomparso al mattino, non torna. / Ha lasciato la pala, ancora fredda, all’uncino / – era l’alba – nessuno ha voluto seguirlo: / si è buttato su certe colline”. Ulisse: “Stamattina, è scappato il ragazzo, e ritorna / questa notte. Starà sogghignando. A nessuno / vorrà dire se a pranzo ha mangiato”.
Se quindi capita che il ragazzo provi di rimediare alla propria esclusione, cercando la terra, quando non si può rientrare in quella condizione, è la terra a esigere il ragazzo. Avventure: “Sulla nera collina c’è l’alba e sui tetti / s’assopiscono i gatti. Un ragazzo è piombato / giù dal tetto stanotte, spezzandosi il dorso. […] Il ragazzo spiava gli amori dei gatti”.
Un filo di sangue in Lavorare stanca
“Ogni romanzo di Pavese ruota intorno a un tema nascosto, a una cosa non detta che è la vera cosa che egli vuol dire e che si può dire solo tacendola. Tutt’intorno si compone un tessuto di segni visibili, di parole pronunciate: ciascuno di questi segni ha a sua volta una faccia segreta (un significato polivalente o incomunicabile) che conta più di quella palese, ma il loro vero significato è nella relazione che li lega alla cosa non detta.”
Questo è l’inizio di una prefazione scritta da Italo Calvino per la traduzione in francese de La luna e i falò, che poi non venne inclusa nel volume per motivi di lunghezza. Le due frasi riportate sopra, ci spingono ad avvicinarci al nucleo tematico dell’intera opera di Pavese. C’è un filo di sangue che tiene unite le campagne delle Langhe, i salotti delle città, i fossi di acqua stagnante e le feste di paese nell’opera dello scrittore.
Di questo ci parlano i simboli di Pavese. Si scrive di qualcosa di nascosto, che avviene poco sotto la terra, presente nel buio delle vene, che può essere pensato solo attraverso una percezione poetica prima che logica. Non c’è processo simbolico che non sia avviato da un’iniziale emozione poetica. Tra i versi e le immagini di Lavorare stanca sembra di sentire che sia necessario versare il sangue alla terra per farla fiorire. Che questo provenga da un debito antico, da una natura che non è quella che crediamo che sia, che non è innocente, che non è pura. Che dietro l’alternarsi delle stagioni ci siano la violenza, il sesso e la colpa.
E nei versi Pavese non lo dice mai – non può dirlo – ma ci fa vedere ciò che lui ha visto. Non c’è modo di pronunciare una verità del genere se non cercando di arrivare alla sorgente delle immagini che la compongono. Pavese sa perfettamente che per esprimere questa verità occorre perpetrare il simbolo. Pavese e i sacrifici umani è il titolo del saggio citato di Calvino
Gabriele Lattanzi
Bibliografia:
Cesare Pavese, Le poesie, Einaudi 2014
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi 2014
Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori 2017