Non sorprende scoprire che il gioco d’azzardo in età romana era un passatempo assai pervasivo e socialmente destabilizzante per un sistema che cercava di porre un freno alla mobilità sociale. Non è un caso che si percepì presto l’esigenza di regolamentazioni specifiche e di una giurisprudenza apposita.
In questo articolo si andrà innanzitutto a mostrare una panoramica generale sui giochi d’azzardo che andavano per la maggiore due millenni or sono, per poi concentrarsi sugli aspetti più interessanti del diritto in materia.
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Per una definizione di gioco d’azzardo
Tutte le attività governate più dal caso che dall’astuzia, accompagnate da una scommessa pecuniaria, erano considerate dai Romani gioco d’azzardo. Il termine che i Latini utilizzavano in questi casi è alea. Tra i più abusati ancora ai giorni nostri è denso di significato e non facilmente traducibile con una singola parola, ma più correttamente come una azione.
L’alea non era il semplice gioco dei dadi. Con questa parola si volevano raggruppare tutte quelle attività dominate puramente dal caso. Andrebbe per questo tradotto come “azione del gioco” (l’atto del gettare) o “gioco d’azzardo” più in generale. Col termine aleatores ci si riferiva ai giocatori stessi.
Ne consegue che una trasposizione del celebre motto cesariano “alea iacta est” con “il dado è tratto” è più funzionale al linguaggio moderno ma devia dal significato originario. Non è un caso, inoltre, che la radice etimologica del nostro aggettivo “aleatorio” derivi proprio dall’incertezza insita in ogni azione dominata dal caso.
Tutto inizia con una moneta…
I giochi più semplici con cui si poteva giocare d’azzardo erano la morra ed il celebre caput aut navia, o per meglio dire “testa o croce”. Il nome del gioco deriva infatti dall’aspetto delle prime monete di bronzo romane. Coniate intorno al IV secolo a.C., raffiguravano sul dritto una divinità e sul rovescio la prua di una nave.
D’altronde, se pensiamo al nostro “testa o croce”, ci rendiamo conto che non ha più alcuna connessione con la tipologia delle monete attualmente in circolo, il ché non lo ha però mutato nel tempo. È così che deve essere stato anche per i Romani di epoche successive all’uscita fuori corso (piuttosto precoce in realtà) di quelle particolari monete bronzee.
I dadi
I dadi, chiamati in latino tesserae, erano senza dubbio lo strumento principale del gioco d’azzardo. Venivano utilizzati anche in giochi da tavolo avulsi dalla componente pecuniaria. Ne sono stati ritrovati di vari forme e dimensioni, in tutto il mondo romano e pre-romano.
Potevano essere in osso, avorio, vetro, ceramica e persino cristallo e avere le classiche 6 facce, ma anche 12 o 20. Di norma erano numerati attraverso l’incisione di cerchietti sulle superfici.
Si tratta di strumenti da gioco antichissimi e sono molte le fonti che ne parlano. Si ha notizie di giochi di dadi nell’Iliade, promossi da Palamede. Dice infatti Sofocle: «Non fu lui, Palamede, a inventare i passatempi migliori per i soldati che si siedono dopo il faticoso combattimento, i dadi, le pedine, piacevoli rimedi all’ozio?».
Ne parla anche Erodoto nelle sue Storie, attribuendone l’invenzione al popolo dei Lidi: «al tempo del re Atis, figlio di Manes, si abbatté su tutta la Lidia una tremenda carestia. Per qualche tempo i Lidi si sforzarono di resistere e sopravvivere ma, perdurando la situazione, cercarono rimedi ingegnosi, chi in un modo, chi in un altro. Fu così che vennero inventati proprio allora i giochi dei dadi, degli astragali, della palla e tutti gli altri. Contro la fame escogitarono questo sistema. Un giorno lo dedicavano interamente al gioco per non avvertire il desiderio del cibo, l’altro al cibo astenendosi dai giochi. In questo modo resistettero 18 anni.»; e tanti altri.
Contrastare i bari
Le tesserae si usavano perlopiù in coppia o tre alla volta e si solevano lanciare invocando il nome di una divinità o della propria innamorata. Scopo del gioco era indovinare il risultato o gareggiare nell’ottenere la somma più alta. Per evitare brogli di mano era buona norma utilizzare un bussolotto (fritillus) nel quale agitarli per poi lanciarli sulla plancia. A quanto pare esistevano tecniche di lancio specifiche di cui approfittavano i bari.
Comune era anche la cosiddetta turricula, una sorta di torre a base quadrangolare che all’interno era percorsa da lamine oblique sulle quali scivolavano i dadi.Uno degli esemplari meglio conservati si trova oggi nel museo di Bonn, è fatto in bronzo ed è decorato con iscrizioni.
Tutto ciò, però, non faceva che aguzzare l’ingegno dei bari, che continuamente aggiornavano le loro tecniche. A Pompei sono addirittura stati ritrovati dadi “truccati”, realizzati scavando all’interno una piccola nicchia nascosta atta a contenere un pesetto di piombo. Così facendo aumentavano le possibilità che il dado mostrasse la faccia opposta a quella appesantita.
Gli astragali
Ancora più antichi erano gli astragali, chiamati anche tali dai Romani. Si tratta di piccoli ossicini di derivazione ovina o suina opportunamente trattati. Si trovano anche negli esseri umani tra la tibia e il calcagno. È probabile che anticamente la loro originaria funzione sia stata divinatoria prima che ludica, e che in seguito si sia perso quest’aspetto.
Gli astragali si differenziano dai dadi poiché presentano solamente quattro facce utili (le rimanenti due di questo esaedro sono eccessivamente stondate e dunque inutilizzabili). Le loro dimensioni sono per altro disuguali: una faccia è concava, un’altra convessa e due sono piatte. Queste possono essere talvolta decorate e corrispondono ai numeri 1, 3, 4 e 6.
Lanciando quattro astragali qualunque giocatore sperava uscisse il famoso “colpo di Venere”, evento assai raro se si considera il numero possibile di combinazioni (35). Si otteneva quando i pezzi mostravano ognuno una faccia diversa. La faccia corrispondente al numero uno era detta del cane, e in assoluto il peggior lancio possibile era il “colpo del cane”, quando cioè le facce degli astragali mostravano tutte e quattro il numero uno.
Ancora oggi d’altronde la metafora canina è sovente associata a deficienze nel gioco o nello sport. È lo stesso Ovidio a consigliare, a coloro che vogliano conquistare una donna, di giocare letteralmente “da cani”, di fare in modo cioè di avere sempre il punteggio più basso al fine di far vincere l’amata ed evitare problemi.
Le fonti parlano di numerose altre combinazioni possibili nel lancio degli astragali, c’era ad esempio il “colpo dell’avvoltoio”, quello “del re”, e ancora “di Stesicoro”, “dell’efebo”, “della chioma di Berenice”, “della vecchia”, “di Euripide” (che pare fosse un risultato da 40 punti). Nella maggior parte dei casi i significati ci sfuggono.
Le fonti letterarie del diritto
Il gioco d’azzardo era sul serio un problema di ordine sociale di cui ci si rese conto molto presto. Risalgono infatti alla fine del III secolo a.C. le prime notizie di specifiche leggi volte a contrastare il fenomeno, ed è Plauto ad informarci. In generale ci si riferiva a questo tipo di provvedimenti col nome di leges alearie, poiché disciplinavano la pratica dell’alea, cioè del gioco d’azzardo.
Dediti al controverso passatempo erano tutti gli strati della società romana, da quello servile, che spesso era associato implicitamente a tali pratiche considerate disdicevoli (tanto che secondo Ulpiano il venditore di uno schiavo doveva garantire tra le tante cose la sua estraneità al gioco d’azzardo prima di piazzarlo sul mercato), agli strati più alti.
E anche qui gli aneddoti letterari sono innumerevoli. Marc’Antonio, secondo Cicerone, non avrebbe mai mancato di abusare del suo potere per dedicarsi al gioco assieme ai suoi amici; Augusto era in grado di perdere la ragguardevole cifra di 20000 sesterzi (per capirci, l’introito annuale considerato adeguato ad uno stile di vita dignitoso) in una singola giornata di giochi.
Di Caligola si malignava che si sarebbe consolato per la morte della amata sorella Drusilla giocando a dadi; Claudio, ci informa Svetonio, addirittura scrisse un perduto trattato sul gioco dei dadi ed era così assuefatto a questi passatempi da provvedere il suo carro imperiale di piano da gioco fissato alle pareti dell’abitacolo, in modo da resistere agli scossoni del viaggio. Ancora Augusto, vero e proprio ludopatico, pare che durante una cena organizzata dalla figlia Giulia avesse inviato ad ogni commensale la cifra di 250 denari da spendere al gioco.
I motivi che spinsero lo Stato romano ad adottare regolamentazioni via via più restrittive erano probabilmente legati al funzionamento della società romana stessa. Depauperare un esponente dei ceti elitari delle proprie sostanze avrebbe alla lunga trascinato verso il basso una consistente fetta di patrizi, e di conseguenza destabilizzato nuclei di potere radicati nel tempo. C’erano poi motivi di ordine pubblico, essendo le liti per questioni di gioco piuttosto frequenti. Ciò è testimoniato ad esempio da un affresco rinvenuto a Pompei, che ci mostra una scena di lite da gioco a fumetti condita di turpiloquio.
Le fonti giuridiche sul gioco d’azzardo
Una originale lex de aleatoribus, menzionata dal già citato Plauto, pare sanzionasse i giocatori d’azzardo al pagamento di una ammenda pari a quattro volte il valore della posta in palio (actio in quadruplum), dietro denuncia da parte del perdente stesso o di qualunque cittadino.
Il Digesto (VI sec. d.C.) rimane comunque la più completa fonte giuridica romana che ci sia pervenuta sino ad oggi. L’opera include una sezione denominata De aleatoribus, in cui i giuristi giustinianei hanno compilato una parziale raccolta delle leggi promulgate in materia fino a quel momento. I frammenti riportati sono pochi, dei quali il primo riguarda gli organizzatori dei giochi d’azzardo (susceptores), a cui viene negata ogni tutela in caso di danneggiamenti, furti e ingiurie.
Il secondo circoscrive l’area di applicazione delle norme: non incorrono, infatti, in sanzioni le scommesse (sponsiones) effettuate durante le gare sportive che si dicono fatte virtutis causa (lancio del giavellotto, corsa, salto, lotta, pugilato etc..). Curiosamente anche i giochi d’azzardo organizzati durante le cene (convivia) erano esclusi.
Infine, il legislatore si sofferma sui rimedi da utilizzare per recuperare quanto perso al gioco in varie circostanze. Ci sono poi un paio di norme più tarde, promulgate da Giustiniano stesso, volte a negare la possibilità al vincitore di esigere legalmente la vincita (cosa per altro vera anche nei secoli precedenti) e a limitare ad un solidum la somma che era possibile scommettere nei casi di liceità della cosa (le già citate gare atletiche con l’aggiunta ora del gioco dei dadi).
Festività e gioco d’azzardo
C’erano però dei momenti nel corso dell’anno in cui tutte queste norme e limitazioni cessavano di funzionare come per magia. Durante i Saturnalia, celebri festività che si svolgevano dal 17 al 23 dicembre in cui le regole e lo stesso ordine sociale erano sovvertiti, era lecito giocare d’azzardo senza ripercussioni di sorta, benché non sia chiaro se il diritto di riscossione delle vincite divenisse applicabile per legge.
Stessa cosa valeva poi per le Quinquatria, feste in onore di Minerva celebrate cinque giorni dopo le idi di marzo e di giugno (si estendevano per un numero di giorni su cui non si è concordi). Sembra che proprio durante queste ultime Augusto abbia perso in un giorno quell’ingente somma di denaro di cui si è raccontato negli aneddoti precedenti.
In conclusione, nonostante la disciplina ludica fosse normata, i Romani continuavano a praticare l’alea in barba alle regole. Sono davvero troppi i ritrovamenti di strumenti da gioco, troppe le rappresentazioni del gioco in affreschi, e gli aneddoti riportati dai cronisti per supporre più di una lievissima osservanza delle regole. I Romani, proprio come noi, amavano il brivido del gioco e, perché no, scendevano a patti col rischio di essere scoperti dalle autorità e puniti.
Massimo Marino
Bibliografia
Jérôme Carcopino, La vita quotidiana a Roma, 2008, Laterza.
Federica Guidi, Vacanze romane, 2015, Mondadori
Giovanbattista Greco, Iura & Legal systems, N. 3, 2016, Salerno.
Ugo Enrico Paoli, Vita romana, 2013, Mondadori.