Eos, raffigurata come una giovane bellissima, capelli lunghi e biondi, occhi cerulei, mani e dita rosate, con un lungo manto color zafferano, era la dea messaggera dell’alba (chiamata così Emera) e del tramonto (chiamata anche Espera), nonché la più bella dell’Olimpo dopo Afrodite.
Al termine di ogni notte, Eos si alzava dal suo giaciglio a Oriente, saliva su una biga guidata dai due cavalli Lampo e Fetonte e correva verso l’Olimpo, dove annunciava l’arrivo del fratello Elio per poi seguirlo quando terminava il suo viaggio in Esperia, ovvero la Spagna.
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Le origini di Eos
All’origine del mondo c’erano i Titani che governavano il mondo prima degli dei olimpi. Erano sei maschi e sei femmine. Alcuni di loro si unirono in matrimonio; tra questi Hiperione e Theia, il primo preposto al governo dell’est del mondo, della luce, dell’osservanza e della vigilanza sulla Terra; la seconda alla luce notturna e quindi alla Luna. Dalla loro unione nacquero tre figli: Eos, Elio o Helios, e Selene.
Alla fine della Titanomachia (la guerra dei titani contro gli dei per il dominio del mondo), Eos, Elio e Selene ereditarono dai loro genitori l’onere di trasportare in cielo i corpi celesti, ovvero il sole e la luna.
Gli amori divini: Astreo e Ares
Durante la titanomachia, Eos s’unì in matrimonio con Astreo, ovvero il titanide preposto all’ordine delle stelle e guardiano delle galassie. Ebbero quattro figli: Borea, Euro, Noto e Zefiro, ossia i quattro venti del mito classico. Da qui l’appellativo alla dea di “madre dei venti”. Altre versioni attribuiscono la genitorialità di Eos ed Astreo anche ad Astrea, dea simboleggiante la giustizia, Fosforo e Vespero, ovvero, rispettivamente, le stelle del Mattino e del Tramonto.
Alla fine della guerra, Astreo fu mutato in una costellazione per essersi schierato coi titani, mentre Eos, coi suoi fratelli, fu risparmiata non avendo scelto alcuna parte.
Ebbe una relazione, forse ancora scossa per la scomparsa del marito, con Ares, il dio della guerra, scatenando così le ire di Afrodite che la condannò a bruciare d’amore in eterno per i giovani mortali.
Apollo, appresa la notizia, la irrise davanti agli dei, e da allora la dea arrossì ogni volta che varcò il cielo per annunciare ai mortali il nuovo dì.
Il “vizietto” del ratto: Ganimede e Clito
Eos cominciò così ad innamorarsi frequentemente di vari giovani mortali. Gli amori più fugaci furono quelli con Ganimede, Clito e Cefalo.
Ganimede era considerato il mortale più bello dai tempi di Troia. Eos lo rapì ancora adolescente sul monte Ida, per poi lasciarlo a Zeus, di cui fu non solo amante, ma anche coppiere di fiducia.
Rapì successivamente Clito, un altro giovane di straordinaria bellezza che la rese madre di Cerano, che a sua volta fu il padre di Polido, uno dei più celebri indovini del mito greco, noto soprattutto per aver interpretato l’enigma dell’oracolo su come far resuscitare Glauco, il figlio di Minosse e Pasifae.
L’amore per Cefalo
Un altro grande amore di Eos fu Cefalo, un ragazzo di straordinaria bellezza, sposo di Procri, genero di Eretteo re di Atene, che rapì durante una battuta di caccia. Cefalo volle essere fedele alla sua sposa, così Eos insinuò nella mente del ragazzo che la moglie avrebbe ceduto alle avances di un altro uomo se le avesse offerto dei doni preziosi.
Cefalo così fece una scommessa con la dea: mutò il suo aspetto, si presentò a Procri col nome di Pteleone e le donò una preziosissima tiara in cambio del suo amore. La donna, stanca delle continue insistenze del giovane, accettò e Cefalo amaramente constatò la dura verità: si rivelò alla sposa e la lasciò per Eos mentre Procri scappò a Creta dove divenne amante di Minosse.
Procri in seguito ritornò da Cefalo e i due si riconciliarono andando a caccia insieme, ma sfortuna volle che Cefalo, pensando di mirare ad un animale nascosto tra i rami, colpì mortalmente Procri. Condannato all’esilio per questo omicidio, giunse a Tebe dove regnava Anfitrione che lo accolse e gli fece omaggio di un’isola che venne chiamata Cefalonia. Qui un giorno, colto dal rimorso per la fine di sua moglie, si gettò in mare da una rupe.
Orione: l’amore conteso con Artemide
Un giorno, alle porte del palazzo di Elio, nell’Estremo Oriente, bussò un tale di nome Orione, un cacciatore reso cieco da Enopione, re di Chio, perché brillo osò violentare sua figlia Merope.
Orione era accompagnato da un tale di nome Cedalione, apprendista delle fucine di Efesto dell’isola di Lemnos, e dal cane Sirio. Un oracolo annunciò al bel cacciatore di recarsi presso la dimora del dio del sole per poter riottenere la vista.
Eos s’innamorò perdutamente di Orione e supplicò il fratello di ridargli la vista; questi l’accontentò. La dea ed Orione andarono a Delo dove giacquero per parecchie notti sino a quando il cacciatore decise di ritornare a Chio per vendicarsi dell’affronto subito. Quivi però non trovò il re – rifugiato a Creta o, secondo altre versioni, protetto dentro una camera impenetrabile (opera di Efesto) – bensì Artemide, la quale mostrò un notevole interesse per il giovane ragazzo.
Un giorno Orione incontrò le Pleiadi, figlie di Atlante e di Pleione, e le importunò. Artemide s’arrabbiò moltissimo col ragazzo tanto da mandargli contro un gigantesco scorpione dalla corazza impenetrabile. Orione sfuggì alla morte grazie a Sirio che lo svegliò in tempo per scappare. Intervennero gli dei che mutarono tutti, anche il cane, in costellazioni ancora visibili in cielo.
Titone: l’amore più straziante
Eos s’innamorò perdutamente di un giovane rampollo della casata di Troia: Titone, figlio di Laomedonte e di Strimo, fratello di Podarce, primo nome dato a Priamo. Rapì anche questo spasimante e lo portò in Aethiopia (l’odierno stato africano etiope). Da lui ebbe Emazione e Memnone.
Eos si recò poi da Zeus per concedere l’immortalità al suo amato; il dio l’accontentò, ma la dea dimenticò di chiedere anche l’eterna giovinezza. Il povero Titone così rimase eterno, ma invecchiò talmente tanto che, una volta privo dei movimenti, e quindi ripudiato da Eos, fu rinchiuso dentro una grotta al buio sino a diventare una cicala.
Memnone e le lacrime di rugiada
In breve tempo Memnone divenne re degli Etiopi e, dopo poco tempo, fu chiamato a combattere i Greci a fianco del popolo troiano sia in virtù della discendenza paterna sia per sostituire Ettore, morto in battaglia per mano di Achille.
Eos, sempre ostile alla guerra, si schierò col figlio e quindi capeggiò per la fazione troiana. Memnone si dimostrò subito un abile armigero anche per il fatto che fu l’unico dell’esercito troiano a ferire, non mortalmente, Aiace Telamonio.
I troiani sembrarono così rinvigoriti che anche Pentesilea, regina delle Amazzoni, altro schieramento sceso in campo a fianco di Priamo, perse la vita in battaglia. Memnone nella lotta inseguì Nestore, deciso ad ucciderlo. Quando riuscì a fargli piegare le gambe, Antiloco si sacrificò al posto del padre. Intervenne nella disputa Achille, deciso a vendicare il trapasso dell’amico.
«Oggi, spero che sia tu a morire, venga il tuo destino oscuro, sotto la mia lancia.
Tu da questa mischia non sfuggirai vivo! Sciocco, perché hai sterminato crudelmente i Troiani, dichiarandoti il più potente degli uomini? Poiché ti vanti di essere l’immortale figlio di una Nereide?»
(così Quinto Smirneo, Posthomerica, libro II, vv. 516-521).
Achille nella lotta contro Memnone si trovò in difficoltà: l’etiope riuscì addirittura a scalfirgli più volte la pelle senza conseguenze letali per il Pelide, essendo egli debole solo al tallone. Lo scontro proseguì per tre giorni. Eos e Teti interpellarono Zeus per decretare il vincitore di quel duello: il dio pesò su una bilancia a due braccia i destini di ambo gli eroi ed Achille risultò vincitore.
L’esercito etiope, rimasto senza un condottiero, si disperse, e tutti i suoi guerrieri fuggirono da Troia. Per volere di Zeus dalle ceneri di Memnone, che era stato bruciato sullo stesso rogo di Antiloco, nacquero due schiere di uccelli immortali (detti “Memnonidi“) che ogni anno combattono fra loro sul cielo di Troia.
Eos pianse così tanto per la morte del figlio che ogni volta che saliva in cielo seminava le sue lacrime sulla Terra dando vita alla rugiada.
Eos (Aurora) negli Hiperionidi
La dea Eos, insieme ad Elio e Selene, è una delle protagoniste di Hiperionidi, tetralogia sui miti greci pubblicata nel 2016 dalla Casa Editrice MonteCovello.
Il nome della dea è stato mutato in Aurora. Ella si presenta come una donna decisa ma spaventata, che fugge da un matrimonio terribile con Astreo. La dea è incinta di Zefiro ed affronta quest’intrepido viaggio nel Mar Mediterraneo (Thalassa) per liberare il padre Hiperione, incarcerato al “Meridiano Zero”, fuggendo allo stesso tempo anche dalla dipendenza affettiva che prova ancora verso il marito ambizioso e violento.
Si rivelerà essere una donna saggia, sempre pronta a dispensare utili consigli ai fratelli quando si troveranno in difficoltà, supportata anche dall’affetto che Zefiro prova per lei, l’unico tra gli altri figli (Borea, Noto e Euro).
Eos nella cultura popolare
Eos è la manifestazione della nascita del nuovo giorno, è colei che precede l’ingresso del sole in cielo: un bagliore, una speranza, un simbolo di nascita o l’inizio di un radicale cambiamento, dunque di una rinascita.
L’arte, solitamente, la rappresenta come una bellissima donna con le ali agli omeri su una biga trainata da cavalli alati in attesa di rapire i suoi amanti: ne è un esempio il capolavoro di Guido Reni nel Palazzo Rospigliosi a Roma.
La dea Eos ha ispirato inoltre il titolo di un giornale, nato prima in forma cartacea e poi consultabile on-line, del liceo Classico Convitto Nazionale di Avellino i cui studenti sono i redattori ed il prof. Pellegrino Caruso è il direttore.
Marco Parisi
Bibliografia:
- Karoly Kerenyi, gli dei e gli eroi dell’Antica Grecia, il saggiatore
- Robert Graves, i miti greci, Longanesi Edizioni
- Andreani-Traversetti, Miti degli dei e degli eroi, Gherardo Casini Editore
- Marco Parisi, Hiperionidi, l’alba degli dei, MonteCovello Edizioni
Sitografia: