Se si pensa oggi a Paolo Sorrentino, la prima cosa che viene in mente è il suo Premio Oscar per il miglior film straniero nel 2014, oppure le fortunate serie televisive targate Sky The Young Pope e The New Pope. Queste ultime, però, ci hanno restituito un Sorrentino molto più kitch e pop e meno autoriale e tenebroso rispetto agli esordi.
All’inizio della sua carriera, in pochi avrebbero creduto che quel ragazzo del Vomero, cresciuto con la passione per il cinema e per il Napoli, sarebbe diventato uno dei più grandi cineasti italiani del nuovo millennio.
Un autore dallo stile marcato, autentico e genuino confezionato in pellicole iconiche che hanno arricchito una lunga e coerente carriera, fatta di amore per i personaggi torbidi, maledetti e per storie grottesche o iperrealiste, al limite tra sogno e realtà.
La ventennale carriera cinematografica di Paolo Sorrentino è stata caratterizzata da film sempre ambiziosi e che hanno unito, ma al contempo diviso, pubblico e critica.
In questo articolo ripercorriamo la carriera cinematografica del regista partenopeo in questa speciale classifica. Una guida, questa, che intende analizzare brevemente – con l’ausilio del gusto personale di chi scrive – tutti i film, dal “peggiore” al migliore, di uno dei registi più amati della storia del cinema contemporaneo.
Indice dell'articolo
8. Loro (2019)
La nostra speciale guida dedicata alla filmografia di Sorrentino non poteva che partire con il suo film meno riuscito. Un biopic in chiave sorrentiniana di una delle figure più controverse del panorama socio-politico italiano del nuovo millennio, Silvio Berlusconi.
Loro ripercorre le vicende dell’ex Premier negli ultimi anni di vita del berlusconismo, tra crisi di partito e crisi coniugali. Il Silvio Berlusconi – interpretato da Toni Servillo – si lascia trasportare in un turbinio di spensieratezza e nuova giovinezza nei festini con bellissime ammiratrici nel fiore degli anni.
Seppur realizzato con ingenti somme di denaro, l’ottavo film di Sorrentino è un esperimento per niente riuscito. È una miscela confusa di generi diversi, di fatti veri e fatti inventati, di personaggi reali e fittizi, che arrivano a mostrarci quello che, purtroppo, banalmente già sappiamo della figura di Silvio Berlusconi.
Loro è un po’ lo specchio del cinema sorrentiniano degli ultimi tempi: economicamente molto ricco, ma molto povero di contenuti profondi.
Se volete leggere di più sull’argomento, trovate qui un’analisi più approfondita sull’ottava fatica cinematografica del regista partenopeo.
7. L’amico di famiglia (2006)
Il terzo film di Paolo Sorrentino racconta la triste storia di Geremia de’ Geremei, detto Cuoredoro, un avido usuraio, spietato nel farsi rispettare e attento ad aiutare solo chi veramente è in grado di risarcirlo.
Tra i clienti di Geremia c’è un padre disperato, che non ha i mezzi economici per organizzare le nozze della figlia. Cuoredoro fiuta l’affare e decide di aiutare il povero padre. La futura sposa, però, scopre la vera identità di questo “amico di famiglia” e decide di concedersi allo strozzino in cambio di un cospicuo sconto sul tasso d’usura.
La vita di Cuoredoro sembra cambiare per il meglio, sia negli affari che nella vita sentimentale. Infatti la giovane novella sposa – incontrata di nuovo dopo tanto tempo – gli si concede nuovamente e gli dichiara il suo amore.
In uno stato di euforia incontrollata, lo strozzino conclude un grosso affare, ma scopre suo malgrado di essere stato truffato dalla giovane sposa, con la complicità dei suoi falsi amici. Con la morte della madre e la perdita di tutti i suoi averi, Geremia si ritrova ancora più solo.
Una parabola grottesca di un uomo brutto – fisicamente e moralmente – che vive nella solitudine di un mondo ancor più brutto e cattivo di lui.
Un film non particolarmente riuscito, non solo per il genere complicato da maneggiare, ma anche per quella continua ricerca da parte di Sorrentino del disagio e del perturbante. Una ricerca ossessiva che inevitabilmente lascia da parte l’obbiettivo primario che ogni opera di finzione cinematografica dovrebbe avere: creare empatia con i personaggi della vicenda narrata.
6. Youth – La giovinezza (2015)
Fred Ballinger è un anziano compositore e direttore d’orchestra. Mick Boyle è un burbero regista alle prese con la scrittura del suo ultimo film. I due, amici di lunga data, trascorrono la loro vecchiaia in un albergo di lusso sulle Alpi svizzere.
Fred e Mick si trovano a pensare insieme al futuro, osservando con curiosità le vite dei propri figli e degli ospiti dell’albergo in cui risiedono. Uno su tutti è un Maradona appesantito e affaticato, alle prese con la sua ennesima riabilitazione. I giorni e il tempo trascorrono inesorabili e l’apatia e l’infelicità prendono il sopravvento nell’animo dei due vecchi amici.
L’improvviso suicidio di Mick, scuote Fred dal suo apatico torpore e lo porta a una profonda redenzione interiore. Ora lo aspetta di nuovo quella giovinezza – che Mick cercava continuamente – e può ritornare a vivere e non a sopravvivere. L’anziano compositore fa visita alla moglie, ricoverata in una clinica perché affetta da demenza. Poi decide di tornare sul palcoscenico a eseguire nuovamente le sue melodie per la regina Elisabetta.
Youth è il secondo film in lingua inglese per Paolo Sorrentino. Contempla un cast di altissimo livello internazionale (Michael Kane, Harvey Keitel, Jane Fonda, Rachel Weisz e Paul Dano). In questa pellicola, Sorrentino affronta di petto il tema del tempo che passa. Tematica già affrontata in altri suoi lavori precedenti, ma che in questo è al centro delle vicende raccontate.
Youth è un film sulla decadenza del corpo e dell’anima, ma è anche e soprattutto un film sul labile confine tra vita e morte. Tematiche già proposte ne La Grande Bellezza e che Sorrentino riaffronta in questa pellicola dai toni più grigi e minimali, come le giornate che i protagonisti trascorrono nell’albergo sulle Alpi.
Innegabile la qualità tecnico-stilistica, anche se si intravedono qualche manierismo di troppo e un eccesso di metafore e simbolismi.
5. This must be the place (2011)
Primo film in lingua inglese di Paolo Sorrentino, This must be the place racconta le vicende di Cheyenne (Sean Penn), una ex rockstar che vive isolato nella sua casa a Dublino, ma si veste e si trucca ancora come quando si esibiva sui palchi di mezzo mondo.
La morte del padre, con il quale non aveva più alcun rapporto, lo spinge a tornare a New York. Scopre così che l’uomo aveva un’ossessione: vendicarsi per un’umiliazione subita in campo di concentramento. Così, Cheyenne decide di proseguire la ricerca dal punto in cui il genitore l’aveva interrotta. Inizia un viaggio attraverso gli Stati Uniti, alla ricerca del vecchio ufficiale nazista che aveva umiliato suo padre.
Il film – il cui titolo si ispira all’omonima canzone del 1983 dei Talking Heads (gruppo musicale preferito del regista) – è un road movie divertente, con un Penn sopra le righe, in cui è molto marcato il tema del decadentismo del corpo e dello spirito.
Un romanzo di formazione su un uomo maturo che non riesce a crescere.
4. Il divo (2008)
Prima di Loro, Sorrentino aveva già realizzato un biopic su un politico italiano. Il divo, infatti, racconta la vita di Giulio Andreotti nel periodo tra il 1991 e il 1993, ovvero a cavallo tra la presentazione del suo settimo governo e l’inizio del maxiprocesso di Palermo per collusione mafiosa.
In questa film biografico, Paolo Sorrentino disegna una figura immobile, sacrale ma allo stesso tempo diabolica, dotata di una rara intelligenza e di una dialettica pungente e fuori dal comune. Più il personaggio è fisso e imperturbabile, più la cinepresa si muove frenetica, ma dotata anche di quella grazia che racconta la calma apparente di un personaggio che, in realtà, è indiavolato dentro.
Sorrentino, ne Il divo, raggiunge livelli registico-autoriali ai limiti della perfezione. Va oltre il cinema politico di denuncia e si focalizza su un racconto metaforico sul potere, mettendo in scena – liberamente e senza censure – il personaggio più ambiguo della storia italiana contemporanea.
Degna di nota è anche l’interpretazione di altissimo livello di Toni Servillo, alla sua terza collaborazione con Sorrentino. La performance gli valse il David di Donatello come miglior attore protagonista nel 2009.
3. Le conseguenze dell’amore (2004)
Il secondo film di Paolo Sorrentino narra le vicende di Titta de Girolamo (Toni Servillo) che vive relegato in un hotel in Svizzera. Un uomo misterioso, che soffre d’insonnia e che ogni mercoledì mattina si inietta una dose di eroina. Un uomo freddo, apatico, meccanico che nasconde la sua vera identità. Titta, difatti, è un ex broker della mafia costretto a vivere in una sorta di esilio forzato dopo aver perso più di duecento miliardi di lire che Cosa Nostra gli aveva incaricato di investire.
La vita di Titta, fatta di azioni rigidamente preordinate, comincia però a scomporsi quando inizia a parlare con la giovane barista dell’albergo, Sofia (Olivia Magnani), che da tempo tentava di avere un dialogo con lui.
Tra i due sembra nascere un sentimento e Titta è sempre più evasivo con i suoi compiti da contabile della mafia. Stanco della sua prigionia, Titta decide di mettere in piedi un piano per liberarsi del giogo di Cosa Nostra e cambiare vita. Ma, ben presto, ne pagherà le conseguenze a caro prezzo.
Il Sorrentino che traspare dalla sua seconda pellicola è un Sorrentino rarefatto, distaccato, molto diverso dal Sorrentino che conosciamo oggi. Il cineasta napoletano, infatti, indossa gli abiti di un narratore freddo, meccanico e implacabile, ma che in realtà ci guida all’interno di una storia che racconta la riconquista dei sentimenti, dell’empatia, dell’umanità. Una storia d’amore, forse l’unica nell’intera filmografia di Sorrentino, inserita in un mix di generi, tra noir, thriller e dramma psicologico.
Con questo film, Sorrentino inizia a mostrare il suo amore per le sequenze metaforiche e oniriche, inizia a giocare abilmente col diegetico che diventa extra-diegetico in una prova dalla grande raffinatezza stilistica, essenziale e minimale.
Nel 2005, Le conseguenze dell’amore fece incetta di premi ai David di Donatello, aggiudicandosi le cinque maggiori statuette (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura, miglior direttore della fotografia e miglior attore protagonista) oltre a dare il giusto peso a un mostruoso Toni Servillo, nei panni di uno dei personaggi più affascinanti che abbia mai interpretato.
2. L’uomo in più (2001)
Opera prima del regista napoletano e probabilmente uno dei migliori film esordienti di sempre nel cinema italiano. L’uomo in più racconta le vicende di due uomini completamente diversi – un famoso cantante pop e una star del calcio degli Anni ‘80 – accomunati dallo stesso nome: Antonio Pisapia. Due uomini persi in un abisso che sembra non avere nessuna via d’uscita.
Il cantante è costretto a esibirsi alle sagre di paese dopo che una falsa accusa di stupro ha rovinato per sempre la sua carriera da popstar. Il calciatore, dopo un brutto infortunio al ginocchio, deve concludere la sua carriera sportiva anzitempo. Allora decide di diventare allenatore per trasmettere il suo “sapere calcistico” alle future generazioni del mondo del pallone.
Ma la vita e le persone che abitano i rispettivi mondi dei due Pisapia sono cinici e spietati. E allora, il più debole tra i due decide che l’unico modo per uscire dal quel baratro è farla finita.
Un dramma esistenziale che affonda le sue radici nella ferocia di una società amorale, materialista e priva di ogni meritocrazia.
Sicuramente, da un punto di vista tecnico e registico, non è il film più folgorante di Sorrentino, ma è quello più riuscito dal punto di vista dei contenuti e della storia che racconta. Si intravedono gli aspetti di un talento che sarà coltivato nel tempo, con movimenti di macchina fluidi e delicati, che aiutano lo spettatore a immergersi nelle vicende e a empatizzare con i protagonisti. Ma quello che colpisce veramente è l’abilità di storytelling di un autore, allora trentunenne, genuino e onesto.
Una storia, quella de L’uomo in più, semplice, autentica, confezionata da una sceneggiatura pressoché perfetta che traccia le coordinate dello stile autoriale sorrentiniano.
Il cantante disegnato da Toni Servillo – alla prima di una lunga e fruttuosa collaborazione con Sorrentino – è un personaggio che non si dimentica facilmente. Tanto è vero che poi, nel 2010, Sorrentino scriverà un romanzo, Hanno tutti ragione, il cui protagonista è ispirato al cantante melodico della sua pellicola d’esordio, per approfondirne la psicologia e il carattere, senza rinunciare a quelle chiavi narrative spiccatamente pop e che analizzano una delle tematiche più care al regista partenopeo: la decadenza.
1. La grande bellezza (2013)
Il film più conosciuto di Paolo Sorrentino e che lo ha consacrato come uno dei grandi cineasti della cinematografia internazionale. È l’opera sorrentiniana che ha diviso maggiormente opinione pubblica e critica ed è anche il film che ha portato il cinema italiano a un livello superiore.
Un’opera totalizzante che nel 2013 e 2014 fece man bassa di premi in giro per il mondo (1 Golden Globe al Miglior film straniero; 4 European Film Awards; 9 David di Donatello; 5 Nastri d’argento) e soprattutto si aggiudicò l’ambito Premio Oscar al Miglior film straniero.
Jep Gambardella (Toni Servillo) è uno scrittore disilluso dalla vita. Dopo aver compiuto sessantacinque anni, capisce di dover e di voler vivere la sua vita facendo solo quello che gli va di fare. Tra grotteschi festini sulle terrazze di superattici di una Roma malinconica e stranamente vuota e silenziosa, Jep si lascerà trasportare in un turbinio di apatia e noia. Solo i fugaci ricordi di una gioventù ormai sprecata sono gli unici appigli a cui aggrapparsi per fuggire da un’esistenza vuota e infelice.
Il protagonista è un Toni Servillo disarmante per eleganza ed espressività. Si aggira in un mondo kafkiano, abitato da nobili decaduti, prostitute intellettuali e falsi artisti. Un mondo paradossale che il protagonista ha scelto e con cui liberamente convive.
L’estetica e la regia di Sorrentino sono all’ennesima potenza in questa pellicola. Con movimenti di macchina fluidi e armoniosi e una fotografia maestosa, il regista riesce ad investire lo spettatore con un vortice di emozioni all’apparenza in contrasto tra loro, ma che trovano col passare dei minuti un loro poetico equilibrio.
La grande bellezza è un malinconico ritratto di una città, di un mondo indifferente e seducente attorno al quale ruota un’umanità decadente. Un film che, a detta di alcuni, vuole scimmiottare l’opera felliniana, ma che in verità porta con sé solo dei modelli per raggiungere un livello di autenticità e genuinità mai raggiunti prima da nessun’opera nel cinema italiano contemporaneo.