In questo articolo affrontiamo la questione dei dialoghi platonici spuri. Cioè, quei dialoghi la cui attribuzione alla mano di Platone è incerta e messa in dubbio dagli studiosi. E trattiamo di uno di questi, L’Ipparco, con protagonista Socrate, e ne illustriamo i contenuti.
Indice dell'articolo
Il rapporto tra Socrate e Platone
Innanzitutto, Diogene Laerzio racconta un sogno di Socrate che quest’ultimo compie prima di conoscere Platone, suo allievo più famoso. Cioè, Socrate sogna che tra le mani ha un bellissimo cigno bianco. Tuttavia, il cigno spicca il volo e va via. Dunque, questo sogno è un’anticipazione del suo rapporto con Platone. Cioè Platone, per quanto studente di Socrate, prende poi una direzione sua.
Ma ciò che rende complesso il rapporto tra Socrate e Platone è il fatto che il primo non lascia alcuno scritto. In effetti, Socrate crede nella filosofia come educazione orale, perché solo nel dialogo si formano gli uomini. Invece, Platone è un prolifico scrittore di cui ci è rimasto il corpus di scritti più ampio. Dunque questi scritti, con l’eccezione delle Lettere, sono tutti dialoghi. Perciò, tale stile comporta una riflessione aperta in quanto il lettore assiste allo sviluppo di un’argomentazione filosofica piuttosto che ad un trattato. In effetti, anche la ricorrente presenza di miti, oltre che di diversi punti di vista, suggeriscono il tentativo di riportare in forma scritta il modello educativo del maestro. Quindi, anche se vi è un “tradimento” filosofico nello stile, è presente al tempo stesso un modello di cui è debitore.
Ma a livello contenutistico, quanto i dialoghi hanno a che fare col pensiero di Socrate? Questo tema è spinoso proprio perché non abbiamo scritti di Socrate. Insomma, tutto quello che Platone scrive può essere frutto della sua mente. Tuttavia, studiosi antichi e moderni distinguono i dialoghi che a detta loro conservano un nucleo filosofico più vicino a quello socratico. Cioè, testi in cui Platone riporta in modo più fedele temi delle lezioni del maestro.
I dialoghi platonici spuri
Innanzitutto, una prima classificazione dei dialoghi platonici compiuta dagli studiosi è un tentativo di ricostruzione cronologica. Cioè, nell’ottica che la scrittura dei dialoghi ha richiesto l’intero arco vitale del filosofo, i dialoghi presentano per questo motivo delle differenze. Cioè, in primo luogo differenze stilistiche legate alla loro composizione, ma soprattutto contenutistiche. In effetti, l’idea è che Platone nel corso del tempo si allontana dagli insegnamenti socratici e sviluppa sue idee originali. Questa ricostruzione ricalca ciò che già descrive Diogene col sogno sul cigno.
Ma vi è anche un’altra distinzione. Cioè, quella che vede da una parte i dialoghi “autentici” e dall’altra i dialoghi “pseudo-platonici”, detti anche spuri o apocrifi. Cioè, quei dialoghi ritenuti non scritti da Platone ma da un altro autore, magari un altro filosofo della scuola platonica. In effetti, già studiosi dell’antichità compiono questa distinzione che prosegue poi con gli studiosi moderni. Tuttavia, non vi è sempre accordo su quali sono i dialoghi spuri. Infatti, tali categorizzazioni tengono conto dello stile e dei contenuti di ogni opera. Ma questa analisi è resa difficile proprio perché è già distinta un’evoluzione di temi e stile da parte dello stesso Platone.
In effetti, qualcuno tenta una distinzione anche dal confronto dei temi trattati. Cioè, dalla constatazione che lo stesso tema presente in più dialoghi mostra eventuali contraddizioni tra un dialogo e l’altro. Ma anche questo metro di giudizio non sembra del tutto affidabile. Infatti, come abbiamo detto, i testi platonici presentano le argomentazioni come temi sviluppati al momento da Socrate e i suoi interlocutori. Quindi, le differenze contenutistiche possono trovare questa come spiegazione senza ricorrere all’idea di un altro autore.
L’Ipparco tra i dialoghi platonici spuri
Dunque, risulta chiaro che è molto difficile determinare quali sono i dialoghi platonici spuri. Tuttavia, c’è un certo accordo su alcuni di essi. Cioè, detti dialoghi sono Le Definizioni, Il Teagete, L’Ipparco, Il Minosse, L’Epinomide e Gli Amanti. In effetti, gli studiosi antichi li ritengono autentici, mentre molti moderni no.
Tuttavia già gli antichi compiono una cernita non da poco. Difatti, essi escludono vari testi attribuiti a Platone di cui non sappiamo nulla se non il titolo, come Il Midone e I Feaci. Invece, conosciamo per intero altri testi esclusi come Sulla giustizia, Sulla virtù, Il Demodoco, Il Sisifo, L’Erissia e L’Assioco.
Dunque, almeno fino al secondo secolo a. C., L’antichità considera ad esempio L’Ipparco un originale di Platone. Poi, Aristofane di Bisanzio già lo annovera tra gli apocrifi. Tuttavia, tale testo ha un suo spazio nell’elenco di Trasillo, filosofo neoplatonico successivo del primo secolo d.C. Infatti, quest’ultimo lo colloca nel suo elenco come il quindicesimo testo platonico. Inoltre, come ricorda Giovanni Reale, quando il filosofo rinascimentale Ficino traduce l’intero corpus platonico, inizia proprio con questo testo. In effetti, non tutti gli studiosi moderni lo ritengono un dialogo platonico spuro. Insomma, L’Ipparco dimostra quanto è problematica l’individuazione dei dialoghi autentici e l’accordo su queste classificazioni.
Chi è Ipparco?
Da non confondere con l’astronomo e geografo Ipparco di Nicea o di Rodi, l’Ipparco che dà il titolo al dialogo platonico è un personaggio storico di Atene. Infatti, suo padre è l’ateniese Pisistrato, il quale è più volte tiranno della città greca tra il 561 e il 527 a.C. In effetti, il successo di Pisistrato quale personaggio pubblico dipende dalla sua conduzione della vittoria ateniese nella battaglia di Salamina. Infatti, ciò apre la strada ad Atene per il dominio marittimo. Così, quando Pisistrato muore tra 528 e 527, il potere passa ai figli Ippia e Ipparco. Tuttavia, alcuni aristocratici ordinoscono un complotto e uccidono Ipparco. Invece Ippia, dopo tale evento, continua a regnare e inasprisce la tirannide contro l’aristocrazia.
In effetti racconta Tucidide che, anche prima dell’assassinio di Ipparco, chi detiene per davvero il potere politico ad Atene è Ippia. Invece, Ipparco ha più la fisionomia di un mecenate. Infatti, costruisce una ricca biblioteca e invita a corte vari poeti. Insomma, Tucidide sottolinea l’aspetto colto di Ipparco piuttosto che le sue doti governative.
Dunque, se torniamo ai dialoghi platonici, notiamo che in genere essi hanno due tipologie di titoli. Cioè, o un nome proprio in riferimento a un personaggio presente nel dialogo, oppure l’argomento oggetto del dialogo. “Ipparco” sembra suggerire che il dialogo fa parte del primo gruppo. Invece, appartiene al secondo. Infatti, Socrate dialoga con un’altra persona di cui non conosciamo il nome e nel corso del dialogo racconta proprio del figlio di Pisistrato. In effetti, come Tucidide, Socrate evidenzia la personalità da intellettuale di Ipparco.
A tal riguardo, va detto che un altro dialogo platonico si intitola Ippia, ma si tratta di un personaggio che non ha nulla a che fare col fratello di Ipparco.
Argomento dell’Ipparco
Dunque, L’Ipparco è un dialogo noto anche come L’avido di guadagno e ciò non stupisce visto l’argomento del dialogo. Cioè, in tale dialogo. Infatti, il dialogo inizia fin da subito con la domanda “cos’è la cupidigia?” e l’amico dà come prima definizione “ciò che è proprio di chi crede di ricevere profitto da cose di nessun valore”. Così, Socrate chiede se i cupidi sanno che gli oggetti da cui vogliono trarre profitto non hanno valore. Infatti, se non lo sanno, sono degli stupidi. Quindi, l’amico afferma di no in un primo momento. Però concorda con Socrate quando questi compara i cupidi ai contadini che piantano un albero di nessun valore convinti che ne traggono una ricchezza, o un marinaio che compra vele di nessun valore convinto che è una buona idea.
Così, Socrate afferma che tutti gli uomini amano i beni e odiano i mali. Ma se il guadagno è un bene, allora tutti sembrano essere avidi di guadagno. Così, si tenta una nuova definizione di avido. Cioè, avido è chi pensa di trarre guadagno da cose da cui gli uomini buoni non penserebbero di farlo. Tuttavia, nota Socrate, anche i buoni sperano in ogni tipo di guadagno, visto che il guadagno è un bene. Ma l’amico replica che i buoni non vogliono essere danneggiati da quei guadagni. Però Socrate nota che per danno si intende o il poco guadagno o la perdita, e che il guadagno corrisponde al bene mentre la perdita al male. Dunque le due cose sono in realtà distinte.
Elogio di Ipparco
Così, Socrate apre una parentesi e focalizza l’attenzione su Ipparco. Infatti, Socrate accusa in modo ironico il suo amico di volerlo ingannare, e l’amico gli rivolge la stessa accusa per mezzo dei suoi ragionamenti. Dunque Socrate dice che non è sua intenzione la disobbedienza alle regole di Ipparco. Infatti, egli era un grande uomo in quanto aveva introdotto vari poeti ad Atene nell’ottica di educare i suoi concittadini e comandare su uomini migliori. Poi, per l’educazione anche degli uomini che vivevano oltre la città, aveva fatto costruire delle erme (colonne di pietra sacre) con varie scritte composte da lui per l’indottrinamento. In effetti, una di queste massime era proprio “non ingannare il tuo amico“. Dunque, sotto l’influenza di questa massima, Socrate e l’amico verificano tutto ciò di cui hanno discusso.
Così, l’amico afferma che su un punto Socrate deve ritrattare. Cioè, che non tutte le forme di guadagno sono un bene, e alcune sono un male. Perciò, Socrate prende in considerazione questa posizione, cioè che a volte il guadagno è buono a volte cattivo. Ma anche il cibo a volte è buono a volte e cattivo senza che una delle due tipologie smette di essere cibo. Dunque, lo stesso vale per il guadagno. Ma cos’è il guadagno? Esso è, dice Socrate, l’acquisto fatto senza spendere nulla o di meno di ciò che si riceve. Tuttavia, se qualcuno riceve una libbra d’argento dopo aver dato mezza libbra d’oro, non guadagna davvero, perché il valore dell’oro è superiore all’argento. Dunque, il guadagno deriva dalla considerazione del valore.
Conclusioni
Infine, Socrate torna sull’equivalenza secondo cui ciò che produce guadagno, cioè valore, è buono, e ciò che non lo produce è cattivo. Inoltre, ciò che è buono e di valore corrisponde a ciò che è utile e che tutti gli uomini vogliono in modo indiscriminato. Perciò, tutti gli uomini sono avidi di guadagno. Dunque, nessun uomo dovrebbe rimproverare un altro di essere avido.
In sintesi, per tornare a Ipparco, egli sembra essere l’esempio in questo dialogo dell’uomo buono e il contrario della cupidigia. Ma è davvero questo il senso del dialogo? Infatti, Socrate afferma anche che le erme di Ipparco avevano la funzione di far dimenticare agli Ateniesi le scritte del palazzo dell’oracolo di Delfi. Si tratta di quelle scritte come “conosci te stesso” che, come leggiamo nell’Apologia, sono a fondamento di tutta la vita filosofica di Socrate. Perciò, alcuni studiosi ritengono che anche questa esaltazione di Ipparco nasconde in realtà l’ironia socratica.
Luigi D’Anto’
Bibliografia
Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani 2000.
Sitografia
Lezione di Antonio Gargano sull’eredità di Socrate da parte dei discepoli sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici: https://www.youtube.com/watch?v=NAR-Yt_dJjw.
Nota: l’immagine di copertina è ripresa dal sito Flickr.com.