Nella vastissima produzione di Agnès Varda, Cléo dalle 5 alle 7 è il film che meglio inquadra il rapporto tra l’autrice e la Nouvelle Vague. Ecco un’analisi del film e della sua autrice, tra legami e differenze con la nuova ondata cinematografica.
Agnès Varda regista della rive gauche: biografia e formazione
Nella storiografia del cinema, Agnès Varda ha sempre occupato un posto marginale rispetto ai suoi più conosciuti colleghi maschi. Spesso si è parlato della regista come autrice della cosiddetta rive gauche, una sorta di sponda nel più grande movimento della Nouvelle Vague.
Agnès Varda nasce a Ixelles in Belgio nel 1928, per poi trasferirsi in Francia assieme alla famiglia durante la guerra. La sua formazione è profondamente segnata dagli studi artistici e dal suo primo grande amore: la fotografia. Nel 1947, diventa fotografa ufficiale del Théâtre National Populaire per l’amico Jean Vilar. Come ricorda nel suo ultimo e monumentale film Varda par Agnès, questa esperienza sarà per lei fondamentale. Non solo impara l’arte della messa in quadro, nell’accezione baziniana[1] del termine, ma comincia a mettere a fuoco i punti focali della sua poetica.
La transizione al cinema arriverà nel 1954, anno di lavorazione del suo primo film: La Pointe Courte. La pellicola si sviluppa su due linee apparentemente opposte ma convergenti. Da un lato, segue la storia dei due amanti interpretati da Philippe Noiret e Silvia Monfort, liberamente ispirata al romanzo Le Palme Selvagge di Faulkner. Dall’altro, riprende la vita del piccolo borgo di pescatori in cui si svolge la vicenda, per l’appunto La Pointe Courte, quartiere della città di Sète. Fin da subito, quindi, si sviluppa uno degli elementi chiave della sua cinematografia: il rapporto tra realtà e finzione, tra narrazione e documentario.
Gli studi recenti hanno ripreso la figura della regista in relazione al movimento francese, rivendicando il primato de La Pointe Courte come primo film della Nouvelle Vague. In effetti, già Sadoul nel 1962 segnalava questa omissione, finalizzata a non spodestare il ruolo de I quattrocento colpi del collega François Truffaut.
Era l’inizio di un’epoca, quella della Nouvelle Vague. […] Realizzato con un budget molto limitato, in completa indipendenza, senza vedettes [il film] ha anticipato, nei mezzi come nello stile, la nuova corrente del cinema francese degli anni 60.[2]
A fronte di chi considera la nuova ondata francese un cinema “al maschile singolare”, l’unica donna regista del movimento ne rivendica lo statuto di origine. La posizione storico-critica attuale non considera più la Nouvelle Vague come scuola artistica e come movimento omogeneo. Si tratta, appunto, di un’onda, una generale spinta di rinnovamento sentita dalla nuova generazione di cineasti. È chiaro che, allora, le profonde differenze tra Agnès Varda e il gruppo dei Cahiers non possono più risultare in una posizione marginale e non fanno che confermare lo statuto multiforme del nuovo cinema.
Oggi Agnès Varda è ricordata non soltanto per il contesto nazionale in cui ha operato, ma anche per la sua lunghissima carriera. La produzione della regista non si è mai fermata ed ha proseguito ininterrottamente fino alla sua morte, avvenuta nel 2019. Nel suo percorso artistico, ha toccato tutte le forme e i generi possibili, compreso il passaggio dall’analogico al digitale, fino ad arrivare all’arte visuale.
Cléo dalle 5 alle 7: l’analisi del film
Sarebbe impossibile riassumere in questa sede l’intera filmografia di Agnès Varda. Ci si concentrerà quindi su uno dei suoi film più conosciuti, e insieme, quello che evidenzia più da vicino il rapporto dell’autrice con la Nouvelle Vague: Clèo dalle 5 alle 7.
Il film, datato 1962, è la storia della giovane cantante Cléo, interpretata da Corinne Marchand, nell’attesa di un esame medico. L’arco narrativo si sviluppa in una quasi totale identificazione tra tempo della storia e tempo della visione. La pellicola è scandita da costanti indicazioni temporali e segue davvero il percorso della sua protagonista dalle 5 alle 6 e mezzo, per le strade di Parigi.
L’incipit è significativamente a colori, in contrasto con il bianco e nero del resto del film. Cléo è da una cartomante: la macchina da presa ci mostra il tavolino di legno su cui si stagliano i tarocchi. La scena procede parallelamente alla tensione emotiva della protagonista e si chiude con l’apparizione della carta della morte. Appare quindi la prima didascalia: “Capitolo I: Cléo dalle 17.05 h alle 17.08 h”.
Il tempo, in Cléo dalle 5 alle 7, è tutto interiore, in perenne contrasto con quello oggettivo scandito dagli orologi che la circondano ad ogni passo. Si tratta di una tematica centrale all’interno del film, come la stessa Varda non ha mancato di sottolineare.
Il mio progetto è stato compreso bene: misurare il tempo, quello degli orologi, un minuto dopo l’altro, alla luce della preoccupazione di Cléo, seguendo il ritmo disuguale e soggettivo delle sue sensazioni. Avevo in testa un metronomo in continuo movimento e un assolo di violino, commovente. Desideravo che a essere udito fosse il violino. […] Adesso so che Cléo esiste come personaggio cinematografico capace di vivere nei ricordi.[3]
Dal punto di vista formale, Cléo dalle 5 alle 7 risulta perfettamente in linea con lo stile della Nouvelle Vague: basso budget, riprese in esterni, componente documentaristica. Il lavoro di Varda, però, si inscrive in un contesto più ampio di esplorazione della soggettività, in particolare quella femminile, che la differenzia rispetto ai suoi colleghi uomini.
Agnès Varda, nella sua meditazione particolare sulla donna, introduce la figura di Cléo come una sorta di connubio tra bellezza e morte, tra la grazia e la distruzione. Attraverso il tempo dell’attesa, la regista organizza il percorso della sua protagonista da oggetto a soggetto attivo dello sguardo. Nella prima parte del film, lo statuto di donna-immagine di Cléo viene costantemente messo in scena tramite l’utilizzo degli specchi. La protagonista si ammira di continuo, nel disperato tentativo di fare scudo alla morte con la sua bellezza. Da questo punto di vista, la scena del canto segna una cesura: alla sua esibizione segue la crisi definitiva. Cléo si spoglia metaforicamente dei suoi abiti da spettacolo e della sua capigliatura artefatta, indossa un semplice vestito nero ed esce sola a camminare per le strade della città.
Da questo punto in poi, la macchina da presa opera un vero e proprio pedinamento, seguendo la protagonista nel suo girovagare. Cléo non è più osservata, anzi osserva gli altri, i passanti e i café nelle vie, nella scoperta della propria interiorità. Parigi si trasforma in personaggio e diventa parte di un percorso tutto simbolico. Ricordiamo che Varda ha dedicato tantissimi film alla sua amata città: la regista afferma infatti che ad ispirarle il film è stata proprio Parigi. È quasi possibile fare una sorta di mappa del percorso del film. Cléo dalle 5 alle 7 si muove quasi tutto nel XIV arrondissement, con la sola eccezione del finale che si svolge nel XIII.
Che cosa significava per me Parigi? Una paura diffusa della grande città e dei suoi pericoli, di perdercisi da sola e incompresa, persino travolta. Pensieri da provinciale, non c’è dubbio, e legati a certe letture. […] Queste piccole paura sono ben presto diventate la paura del cancro che, negli anni Sessanta, aveva preso piede nella mente di tutti.[4]
La seconda parte è segnata da due incontri importanti. La protagonista va a trovare un’amica che fa da modella in un atelier di scultura e insieme raggiungono il fidanzato di lei. Qui Varda inserisce una piccola divagazione al flusso narrativo che è, al contempo, anche un omaggio al collega Jean-Luc Godard e alla sua musa Anna Karina.
Temevo di annoiare, così ho interrotto la passeggiata angosciata di Cléo con una distrazione, un piccolo film burlesco prima di rituffare Cléo nella superstizione degli specchi rotti. […] È un mini film burlesco infilato nel film per segnare una pausa nel racconto dell’angoscia di Cléo. Con il senno di poi, questi pochi minuti di dolcezza tra Jean-Luc Godard e Anna Karina e l’allegria degli altri attori nelle loro brevi apparizioni possono essere visti come una vetrina della nouvelle vague, famosa in tutto il mondo.[5]
La tensione emotiva di Cléo riprende quasi subito il suo corso. Le due stanno per andarsene, quando a lei cade la borsa, provocando la rottura dello specchietto all’interno. Dopo aver lasciato l’amica, si fa accompagnare in un parco. Ecco che avviene l’ultimo e decisivo incontro di Cléo con un soldato a fine licenza, che è insieme una finestra sulla drammatica realtà della guerra in Algeria. I due vivono un momento di profondo raccoglimento, accomunati dalla vicinanza con la morte. Il soldato accompagna Cléo in ospedale, prima di ripartire per il fronte. Quando i due si lasciano, Cléo afferma di non avere più paura. Il percorso è compiuto.
Cléo dalle 5 alle 7 è, ad oggi, il film più ricordato di Agnès Varda e una parentesi importante sulla soggettività femminile nel panorama ampio e variegato della Nouvelle Vague.
Martina Pedata
Note e Bibliografia
[1] Per messa in quadro nel cinema si intende l’atto di inquadrare, ovvero di scegliere una porzione di spazio. André Bazin, critico cinematografico e padre metaforico della Nouvelle Vague, insisteva sull’importanza della relazione tra il cadrer e il cacher, ovvero tra l’inquadrare e l’escludere. Ciò che importa non è soltanto quello che c’è all’interno del quadro, ma anche e soprattutto quello che c’è fuori. Per approfondire: Anna Masecchia, Fotografia, in (a cura di) Luca Malavasi, Anna Masecchia, Pianeta Varda, ETS, Pisa 2022, pp.72-77.
[2] Georges Sadoul citato in: Veronica Pravadelli, Le donne del cinema, dive, registe, spettatrici, Laterza, Roma 2014, p.173.
[3] Agnès Varda, Dichiarazione in occasione della presentazione del restauro del film al festival di Cannes, 2012.
[4] Agnès Varda citata in: Giulia Lavarone, Parigi, in (a cura di) Luca Malavasi, Anna Masecchia, Pianeta Varda, ETS, Pisa 2022, p. 97.
[5] Varda par Agnès, Éditions Cahiers du cinéma, Parigi 1994.