Se parliamo di eroine non convenzionali nella letteratura inglese, accanto alle Moll Flanders e Roxana di Daniel Defoe e alla Lizzy Bennet di Jane Austen non potrà certamente mancare Jane Eyre, protagonista dell’omonimo romanzo di Charlotte Brontë, pubblicato per la prima volta nel 1847 sotto lo pseudonimo ambiguo, apparentemente maschile, di Currer Bell. Questo, però, se avete letto il romanzo oppure visto una delle tante trasposizioni per il grande e piccolo schermo, lo saprete già. Interroghiamoci allora sul perché Jane sia tanto rivoluzionaria, pur essendo così “semplice, piccola e oscura”, come si definisce lei stessa. Cerchiamo di andare oltre il testo inserendolo in un contesto preciso: quello della “Woman Question” nell’età vittoriana.
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Il femminismo nell’Epoca Vittoriana: un’analisi di “Jane Eyre”
In una società in cui il lavoro femminile, soprattutto in fabbrica, era ormai estremamente diffuso, ci si può domandare come mai ad un’apparente libertà lavorativa non corrispondesse un’equivalente emancipazione sociale. Nel corso del diciannovesimo secolo, poi, più di una volta furono promulgate leggi volte ad ampliare la base elettorale (i cosiddetti “Reform Bills“, datati 1832, 1867 e 1884-85), nel contesto europeo di una più ampia partecipazione del popolo alla vita politica del paese. La questione, però, si risolveva solo a metà, perché una parte consistente di quel popolo che iniziava ad essere chiamato in causa continuava a rimanere escluso.
Persino in ambito letterario, nonostante i precedenti illustri (Jane Austen per l’Inghilterra, Madame de Staël sul continente), era ancora ferma la convinzione che le donne dovessero, nei loro testi, riproporre il modello cristianissimo e borghese della donna-angelo del focolare, condannando di conseguenza ogni deviazione da questa norma: che dovessero, insomma, sostenere la mortificante morale corrente per veder apprezzate le proprie opere. Non sorprende, quindi, che le sorelle Brontë abbiano deciso di scrivere usando uno pseudonimo: come riuscire, altrimenti, a farsi prendere sul serio?
Da questo punto di vista, Charlotte dimostra di essere la più consapevole: la sua Jane, che di mestiere fa l’istitutrice, è mossa da una volontà incrollabile. Il suo obiettivo è l’indipendenza, materiale (cioè economica) e spirituale: soltanto dopo averla ottenuta potrà intraprendere una relazione sentimentale, perché si sentirà trattata da pari e non da inferiore. Per questo motivo, sulle orme delle note critiche femministe Sandra Gilbert e Susan Gubar, possiamo darne una definizione “inedita”: Jane Eyre è un’eroina byroniana. L’idea è che, per la prima volta, un personaggio femminile racchiuda in sé le caratteristiche tipiche dell’eroe romantico rappresentate, nella letteratura inglese, dai protagonisti dei testi di Lord Byron – e in certa misura da Byron stesso. Abbozziamo un breve elenco: ribellione nei confronti della società, orgoglio, temperamento cupo e rabbioso ma al tempo stesso impetuoso e appassionato. Se l’eroe byroniano rappresenta l’idea che i romantici si erano fatti del Satana di Milton, cioè di un ribelle in lotta contro l’ingiusto potere divino, allora Jane Eyre è la prima eroina a sfidare apertamente il dio-società dell’epoca vittoriana. Conosciamola attraverso le sue stesse parole (per la traduzione rimando alle note):
Woman are supposed to be very calm generally; but women feel just as men feel; they need exercise for their faculties, and a field for their efforts as much as their brothers do; they suffer from too rigid a restraint, too absolute a stagnation, precisely as man would suffer; and it is narrow-minded to say that they ought to confine themselves to making puddings and knitting stockings, to playing on the piano and embroidering bags. It is thoughtless to condemn them, or laugh at them, if they seek to do more or learn more tha custom has pronounced necessary for their sex. [1]
E ancora, nel celebre discorso che precede la proposta di matrimonio di Rochester:
I am not talking to you now through the medium of custom, conventionalities, nor even of mortal flesh: – it is my spirit that addresses your spirit; just as if both had passed through the grave ,and we stood at God’s feet, equal – as we are! […] I am no bird; and no net ensnares me: I am a free human being with an independent will; which I now exert to leave you. [2]
Queste affermazioni, se lette attentamente, contengono non solo una veemente dichiarazione della (propria) individuale uguaglianza, ma una riflessione molto più generale sulla millenaria ingiustizia sociale perpetrata ai danni delle donne. Facciamo attenzione alle parole evidenziate: in entrambi i brani è presente il termine custom, associato nel secondo a conventionalities. Jane Eyre sta dicendo che le differenze tra uomo e donna sono tali solo in quanto abitudini sociali, o tutt’al più legate a differenze fisiche (“mortal flesh“).
Peccato che nel film del 2011 abbiano eliminato proprio “custom and conventionalities”, ma godiamoci comunque questa bellissima scena.
John Stuart Mill e “The Subjection of Women”: paralleli con “Jane Eyre”
Charlotte Brontë ha scritto, dal punto di vista “femminista”, un romanzo certamente innovativo per la ragione che abbiamo evidenziato. In Inghilterra esisteva però un precedente illustre: Mary Wollstonecraft, poco studiata a scuola e conosciuta principalmente per essere la madre di Mary Shelley, aveva dato alle stampe nel 1792 – anticipando quindi di almeno cinquant’anni il sorgere prepotente della questione in Inghilterra – “A Vindication of the Rights of Woman“.
Uno dei temi centrali del saggio della Wollstonecraft, ossia la necessità di un’istruzione che offrisse alle donne la possibilità effettiva di una parità, almeno dal punto di vista intellettuale, è ripresa da John Stuart Mill.
Il testo di Mill, “The Subjection of Women“(1869), ebbe probabilmente un effetto ancor più sconvolgente rispetto a quello della Wollstonecraft – può sembrare una banalità, ma dobbiamo metterci nei panni di una società molto più attaccata alle convenzioni rispetto a quella in cui viviamo oggi -semplicemente perché era stato scritto da un uomo.
Parliamo di Stuart Mill in un articolo dedicato a Jane Eyre perché, leggendo le sue parole, vi sono non pochi punti di contatto con il romanzo di Charlotte Brontë. Mill parla, ad esempio, dell’impossibilità di conoscere le effettive capacità delle donne finché non saranno esse stesse ad esprimersi in merito… a meno che, ovviamente, non si dia il caso straordinario di un marito che conosca perfettamente la propria moglie, perché ha instaurato con lei un rapporto paritario. Mill scrive:
Even with true affection, authority on the one side and subordination on the other prevent perfect confidence. […] it may be confidently said that thorough knoledge of one another hardly ever exists, but between persons who, besides being intimates, are equals. [3]
Ci vorrebbe, insomma, quel rapporto che Jane è tanto faticosamente riuscita ad instaurare con Rochester. Inoltre Mill, proprio come Jane Eyre, sostiene che l’ordine sociale esistente sia frutto di una convenzione, utilizzando quasi gli stessi termini:
Quanto sia attuale ancora oggi la riflessione sulle convenzioni che dominano i rapporti sociali può notarlo chiunque; alla sempiterna domanda “perché leggere i classici?” possiamo allora rispondere che essi ci forniscono esempi concreti di quanto sia importante lottare per sostenere il riconoscimento della parità, al di là delle – sacrosante – differenze.
Maria Fiorella Suozzo
Traduzioni
[1] Si suppone che le donne siano generalmente molto calme; ma le donne sentono come gli uomini e come loro hanno bisogno di esercitare le loro facoltà, hanno bisogno di un campo per i loro sforzi. Soffrono esattamente come gli uomini d’essere costrette entro limiti angusti, di condurre un’esistenza troppo monotona e stangnante; e i loro più privilegiati compagni danno prova di ristrettezza di mente quando affermano che le donne dovrebbero accontentarsi di cucinare e fare la calza, di suonare il pianoforte e ricamare. È stolto condannarle o deriderle se cercano di fare o di apprendere più di quanto le consuetudini ritengano necessario per il loro sesso.
[2] Io non vi sto parlando ora secondo gli usi, le convenzioni, e neppure come un essere fatto di carne: è la mia anima che si rivolge alla vostra anima; proprio come se entrambe fossero al di là della tomba, e ci trovassimo ai piedi di Dio, eguali – come siamo! […] Io non sono un uccello; e nessuna rete può intrappolarmi; sono un essere umano libero con una volontà indipendente di cui mi valgo adesso per lasciarvi.”
[3] Anche se c’è vero affetto, l’autorità da una parte e la subordinazione dall’altra impediscono una perfetta confidenza. […] si può affermare con certezza che non si dia quasi mai una conoscenza totale dell’altro, se non tra persone che, oltre ad essere in stretto rapporto, siano anche eguali. (Trad. mia)
Fonti
Jane Eyre, Charlotte Brontë, Oxford World’s Classics
The Subjection of Women, John Stuart Mill (in The Norton Anthology of English Literature)
Plain Jane’s Progress, Sandra M. Gilbert (in The Madwoman in the Attic, Gilbert, Gubar)
https://www.wwnorton.com/college/english/nael/victorian/topic_2/welcome.htm
immagini: google