“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro.” Spesso ci si bea, nel citare il primo degli articoli costituzionali su cui è fondata l’Italia, dell’illusoria protezione che esso garantisce da coloro che vogliono fare di questo Stato un’oligarchia. I più cinici provano a smentire tale articolo in una forma debole, ovvero disputando se questo sia o meno uno Stato democratico. Noi proveremo oggi a smentire tale affermazione in una forma decisamente più forte, ovvero smentendo che la democrazia possa perfino esistere.
I paradossi della democrazia sono subdoli e molteplici e non bisogna lasciarsi ingannare dal sogno consolatore di una forma di governo pura. Già gli antichi greci erano a conoscenza dei numerosi paradossi della democrazia: ad esempio, si può instaurare una dittatura in maniera legale? Se sì, la libertà potrebbe avere i giorni contati; se no, è limitata già ora. Oppure, si può eliminare l’articolo che permette le revisioni costituzionali? Se sì, il potere di revisione è in pericolo; se no, è incompleto.
L’ingannevole democraticità delle primarie
Potremmo iniziare il nostro discorso da un punto di vista prettamente filosofico, o da un punto di vista prettamente matematico, lo faremo invece da un punto di vista narrativo raccontando l’ascesa del nostro soggetto politico generico. Uno dei requisiti fondamentali della democrazia è la partecipazione attiva del popolo che deve sentirsi rappresentato degnamente negli organismi parlamentari di questo Paese. A tal scopo i partiti cercano di proporre ai propri iscritti e simpatizzanti una lista di membri, che essi reputano tra i più meritevoli, tra cui scegliere il nome del prossimo candidato leader. Sovente tale nome è anche quello che, nel caso di conquista della maggioranza dei seggi in parlamento, viene proposto come Capo di Governo. Cercherò di mantenermi in un discorso generale, non volendo strettamente parlare dell’Italia, per cui mancherò buona parte dei riferimenti normativi relativi all’elezione delle alte cariche italiane.
Quindi il primo passo del nostro soggetto politico è quello di proporsi come candidato leader del proprio partito. Ciò consentirà, in linea di principio, di unire tutti gli appartenenti a quello schieramento sotto un’unica bandiera. Non volendo entrare nel merito dei partiti personali, lì dove il partito è una proprietà privata di una figura di spicco e dove, oltre allo scarso spazio di dialogo, non ci si pone il problema delle primarie, ipotizziamo di trovarci in un mondo ideale in cui il partito X diviso nelle correnti A, B e C si trovi a dover scegliere il proprio candidato da portare alla vetta del potere (o del servizio, ma ciò dipende da come vogliamo intendere la politica). Supponendo che gli elettori preferiscano A a B, B a C e C ad A, ipotizziamo ora che al primo turno di voto segua un seguente turno di ballottaggio. Eliminato il partito A al primo turno sappiamo che vincerà B, nonostante A fosse preferibile a B.
Questo paradosso, noto col nome di paradosso di Condorcet, può spiegarci facilmente come sia possibile che colui che risulta vincitore alle primarie possa esser sconfitto da un avversario proveniente da un altro partito, mentre invece colui che è uscito sconfitto dalle primarie del proprio partito avrebbe potuto vincere senza ombra di dubbio sull’avversario politico del partito avverso. Sembra però che in Italia abbiano trovato il modo di risolvere questo paradosso nella persona di Matteo Renzi. Infatti, dopo le primarie che l’hanno visto vincitore, costui ha monopolizzato la scena politica senza neanche doversi confrontare con l’avversario politico, sebbene il suo successo, in termini matematici, sia dipeso dalle condizioni a contorno.
Il potere emana dal popolo… e non ritorna più
Iniziamo con questa frase di Laub il secondo capitolo narrante le vicende del nostro generico soggetto politico. Ipotizziamo infatti che egli abbia con successo superato lo scoglio delle primarie e che sia ora alle prese con le elezioni politiche. Quando si guarda alle elezioni politiche due sono le domande che occorre porsi: la prima è con quale metodo andremo a votare e la seconda è a che scopo votare. Per quanto rispetti l’idea di Otto Von Bismark, il quale sosteneva che “la politica non è una scienza, ma un’arte”, credo che un po’ di matematica a tal proposito non faccia male.
Un sistema elettorale, per essere democratico, dovrebbe rispettare i seguenti requisiti: universalità, non imposizione, non dittatorialità, monotonicità ed indipendenza dalle alternative irrilevanti. Da tali presupposti nasce il teorema di Arrow che decreta irrevocabilmente l’impossibilità di instaurare un modello democratico per le scelte sociali. Ovviamente la matematica deve quindi scendere a compromessi con la realtà, ma per quale via?
Non mi soffermerò sull’universalità, non essendo infatti sempre possibile stilare una lista che vada dalla prima preferenza fino all’ultima. Passiamo dunque al criterio di non imposizione, che prevede il raggiungimento di qualsiasi risultato a partire dalle condizioni di partenza. Data questa definizione, capirete bene che bloccare le liste o consegnare in mano a terzi il nostro diritto a scegliere chi ci rappresenta è sicuramente il primo passo per allontanarci dalla democrazia.
La non dittatorialità prevede invece che non vi sia lo strapotere della maggioranza, della minoranza o della parte, a scapito delle preferenze di un certo gruppo di individui. Insomma la dittatorialità subentrerebbe se i politici facessero gli interessi soltanto di determinate lobby o se i simpatizzanti di un unico partito eleggessero il capo di Governo, ma per fortuna questi sono casi di pura speculazione filosofica.
La monotonicità prevede invece che qualora il soggetto elettore cambiasse la propria scelta, tale cambiamento si ripercuota anche sull’ordine delle preferenze. Tuttavia ciò legherebbe gli eletti a degli obblighi di mandato dai quali sono giuridicamente protetti, o che quantomeno non costituiscano per loro motivo di sanzioni.
Infine l’indipendenza dalle alternative irrilevanti prevede che pur riducendo la scelta ad un sottoinsieme di opzioni rispetto a quelle di partenza, il risultato dovrebbe essere compatibile con la scelta fatta avendo in gioco tutte le opzioni di partenza.
Insomma capite bene, miei pochi lettori, che, di tutti i sistemi elettorali, il più vicino risulterebbe essere il sistema proporzionale col metodo dei quozienti, ma già se applicassimo a questo uno sbarramento, così da non rendere il mandato che ne derivi il più difficile da gestire nella storia degli uomini, esso perderebbe gran parte delle sue “qualità democratiche”.
La democrazia dei pochi
Ipotizziamo infine che il nostro talentuoso e generico soggetto politico abbia raggiunto il potere. Cosa fare? La democrazia, così come la definizione stessa della politica, vorrebbe che egli sia un uomo disponibile al dialogo tra le parti in vista di un bene comune.
Norberto Bobbio era solito evidenziare sei domande a cui la democrazia reale non aveva saputo assolvere rispetto ai suoi ideali di partenza:
- La proliferazione e la dispersione dei centri di potere, con il conseguente prevalere del peso politico dei gruppi rispetto a quello degli individui;
- La violazione del divieto di mandato imperativo, ovvero l’uso del valore della rappresentanza in difesa di interessi di corporazione piuttosto che della collettività;
- La mancata sconfitta del potere oligarchico;
- Il mancato allargamento degli spazi in cui esercitare il diritto di partecipazione;
- La mancata eliminazione dei «poteri invisibili»;
- La mancata educazione alla cittadinanza, con conseguente diffusione del fenomeno della «apatia politica».
Tuttavia rassicurava altresì: “la democrazia non corre alcun pericolo […]. Il contenuto minimo dello stato democratico non è venuto meno: garanzia dei principali diritti di libertà, esistenza di più partiti in concorrenza tra loro, elezioni periodiche a suffragio universale, decisioni collettive o concordate o prese in base al sistema di maggioranza, ad ogni modo sempre in seguito a libero dibattito fra le parti o tra gli alleati di una coalizione di governo.”
Sfortunatamente con ciò siamo profondamente in disaccordo ed è lo stesso Popper a metterci in guardia evidenziando il gioco nascosto e perverso delle democrazie. Tal gioco porta a essere contenti delle iniziative scandalose dei propri avversari, perché più fanno scandali più si può rispondere “vedete a cosa porta la democrazia?” e ci si offre come unica soluzione. D’altro canto lo stesso Popper era arrivato a concludere che ogni opposizione ha il governo che si merita.
Ciò è dovuto in larga parte a delle carenze di dialogo che, come c’insegna la teoria dei giochi di John Nash, è l’unica soluzione che garantisce il massimo profitto, date condizioni iniziali uguali per tutti i contendenti.
A conclusione di ciò chiedo scusa ai miei lettori per il tempo privatovi e spero di non aver sfiduciato chi tra voi è un politico pratico essendo io, come diceva Kant, un politico teorico che non vuol certo insegnare a voi altri come fare il vostro lavoro.
Francesco Orefice