Antonio Canova, celeberrimo scultore veneto, giunse a Napoli per la prima volta nel 1780. In quell’occasione entrò in contatto con importanti committenti della città e visitò i cantieri archeologici di Ercolano, Pompei e Paestum, mete imprescindibili per i giovani artisti di quel tempo.
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Antonio Canova: la statuaria antica e gli affreschi di Ercolano
Napoli non fu di certo la patria di nascita, né di adozione di Canova: la prima infatti fu Possagno, mentre quella di adozione fu Roma. In quest’ultima il giovane scultore arrivò nel 1779 e vi rimase per quasi tutta la sua vita. La città partenopea e i suoi dintorni però contribuirono sicuramente allo studio delle opere antiche con cui egli entrò in contatto.
Basti pensare ai modelli di riferimento che usò lo scultore per sue creazioni assai note, come nel caso del gruppo scultoreo di Teseo sul Minotauro. Tale gruppo raffigura l’eroe in atteggiamento rilassato, trionfante sul corpo esanime. Per la figura di Teseo, Canova si ispirò al Mercurio seduto, una delle opere più celebri tra quelle trovate a Ercolano e Pompei, che egli vide nella Reggia di Portici, durante il suo primo soggiorno napoletano.
Nella mente del giovane artista lasciarono un segno indelebile anche le pitture ad affresco che egli vide nei suddetti siti archeologici. Tutto ciò lo possiamo notare nella serie delle Danzatrici , esercitazioni grafiche a tempera, alcune delle quali vennero realizzate tra il 1798 e il 1799. Queste figure si ispirano ai souvenir che si vendevano come ricordi di Ercolano.
Antonio Canova: visita alla Cappella Sansevero
Lo scultore non si limitò a osservare e studiare le opere romane presenti nel territorio campano. Egli infatti ebbe modo di ammirare a Napoli, più precisamente nella Cappella Sansevero, la Pudicizia di Antonio Corradini e il Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino.
La prima è un’opera realizzata nel 1752 da uno scultore veneto, cinque anni prima della nascita di Canova (1757). La seconda fu quella che lasciò maggiormente di stucco l’artista, tant’è vero che gli “parve più di merito” rispetto a quella realizzata dal suo corregionale.
L’opera di Corradini riflette lo stile delle opere presenti nella Venezia rococò, dalle quali Canova ad un certo punto prese le distanze. Egli infatti rinunciò alla realizzazione di opere con eccessi dal punto di vista ornamentale e puntò a sculture caratterizzate da “nobile semplicità e calma grandiosità”, come avrebbe affermato Winckelmann.
Dunque le opere canoviane tendevano a una bellezza pura e composta, lontana da ogni tipo di sfarzo. Probabilmente il Cristo Velato rispondeva maggiormente a tali requisiti estetici.
Antonio Canova: tra olimpioniche grazie e furiosi eroi
Una delle più importanti acquisizioni delle opere di Antonio Canova a Napoli fu senza dubbio quella dell’Adone e Venere. Il gruppo, completato nel 1794, raffigura l’ultimo saluto di Venere al bellissimo Adone. Esso venne acquistato dal marchese Francesco Berio di Salsa e posto all’interno di un tempietto nel giardino di Palazzo Berio situato a via Toledo, una delle strade più importanti della città.
La particolare collocazione del gruppo scultoreo (un piccolo tempietto) è frutto della scelta dell’artista. Egli riteneva che le opere dovessero essere tenute in un tempio greco allo stesso modo in cui i romani collocarono nei templi le statue greche. Non a caso i napoletani accolsero il gruppo nel 1795 con lo stesso entusiasmo con cui i romani accolsero opere e maestranze greche.
Il successo dell’ Adone e Venere dovette colpire sicuramente Onorato Gaetani d’Aragona, maggiordomo reale e vivace collezionista. Egli commissionò a Canova, per conto della regina Maria Carolina d’Austria, il gruppo colossale di un Ercole che scaglia nel mare Lica.
L’opera si ispira all’Ercole Farnese (III secolo d. C.), fatta portare a Napoli dai Borbone nel 1795. Il gruppo canoviano, a differenza della grande scultura proveniente da Roma, mostra un eroe furioso, diverso dalle olimpioniche grazie raffigurate dallo scultore. Tale capolavoro è ora situato al Musèe d’Art et d’Histoire di Ginevra.
Canova non portò a a termine la commissione della regina per via della cacciata dei Borbone da parte dei francesi, che ebbe luogo alla fine del secolo. Egli la ultimò solo nel 1815, dopo l’acquisto da parte del banchiere romano Giovanni Torlonia, il quale la fece inserire nel suo palazzo romano. Oggi l’opera è situata nella Galleria d’Arte Moderna di Roma.
Il ritratto di Ferdinando IV di Borbone in veste di Minerva
All’indomani del ritorno a Napoli di Ferdinando IV di Borbone, avvenuto il 31 gennaio del 1801, il re in persona ordinò ad Antonio Canova di realizzare una sua effige. Lo scultore terminò in quello stesso anno il modello della statua e la eseguì solo tra il 1815 e il 1820, in seguito al Decennio francese.
L’opera, in marmo di Carrara, pesa novanta quintali e poggia su un piedistallo con un’ iscrizione in latino. In quest’opera il re appare sotto le spoglie di Minerva, Dea protettrice delle arti.
Il motivo di tale rappresentazione risiede nel fatto che Ferdinando IV (divenuto Ferdinando I) trasformò l’ex Palazzo dei Regi Studi nel Real Museo Borbonico, oggi conosciuto come Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Lo scopo dell’edificio era quello di raccogliere le collezioni d’arte e di antichità borboniche sparse nel territorio napoletano.
La scultura è ancora oggi situata nel museo ed esposta al centro di uno spazio semicircolare, dal quale si diparte lo scalone dell’edificio.
Il ritratto equestre di Carlo III di Borbone e la Fonderia Righetti
Durante il Decennio francese Giuseppe Bonaparte commissionò l’opera canoviana più celebre della città partenopea: il monumento equestre raffigurante Carlo III di Borbone, su cui in origine si sarebbe dovuta posare la figura di Napoleone.
Canova affidò l’esecuzione dell’opera in bronzo al romano Francesco Righetti, fonditore con cui egli aveva lavorato già in precedenza. Egli iniziò a eseguire il monumento nel 1812. Il lavoro venne svolto sulla base di modelli in creta e in gesso, preparati preventivamente dallo scultore veneto.
Righetti realizzò l’opera non a Roma, ma a Napoli. Qui infatti le facilitazioni sarebbero state maggiori e i costi per produrre l’opera minori. Inoltre la corte regia francese gli impose di realizzare il monumento in città per istruire qualche giovane del luogo nell’arte della fusione, supplendo così alla mancanza di tale abilità in terra napoletana.
L’idea di metter su questa scuola venne però attuata solo nel 1815. In quell’anno infatti Ferdinando I riprese possesso del suo regno e ordinò che il monumento equestre rappresentasse, con gli opportuni ritocchi, suo padre Carlo III.
Il monumento, concluso nel 1819, venne fuso e lavorato nella Fonderia Righetti, fatta costruire dalla famiglia di fonditori nella adiacente città di San Giorgio a Cremano. La fabbrica era situata nella zona di quest’ultima conosciuta ancora oggi col nome di “Cavalli di Bronzo”.
I Righetti infatti si occuparono della fusione di un secondo monumento equestre, raffigurante Ferdinando I di Borbone. Di quest’opera solo il cavallo si basa su un modello presente a Napoli nel 1821 di Canova, mentre la figura del sovrano venne ultimata grazie ad Antonio Calì.
I due monumenti sono ancora oggi presenti a Napoli, a Piazza del Plebiscito.
La testa di Satiro: omaggio a Teodoro Monticelli
Non tutto ciò che ha scolpito Antonio Canova ed è presente a Napoli risulta essere noto al grande pubblico. Nel Real Museo Mineralogico della città è infatti conservata una piccola testa di Satiro.
Essa rappresenta un importante saggio mineralogico e artistico, poiché si tratta di un quarzo su marmo di Carrara che è stato in parte scolpito. La testa di Satiro faceva parte della collezione del naturalista Teodoro Monticelli, acquisita dal museo nel 1851.
L’attribuzione dell’oggetto al grande scultore si basa su una tradizione orale, tramandata di direttore in direttore del museo. Tuttavia possono fungere da testimonianza i carteggi tra lo scultore e il naturalista. Queste lettere dimostrano come i due si scambiassero spesso saggi di rocce, in quanto accomunati da un forte interesse per la litologia.
Per questo motivo probabilmente la testa di Satiro è da intendersi come uno scherzo e omaggio dell’artista allo scienziato. La presenza di un quarzo sul marmo rappresenta un ostacolo per la creazione artistica ma, allo stesso tempo, è una caratteristica che rende l’oggetto interessante dal punto di vista mineralogico.
Chiara Rosaria Malizia
Bibliografia:
- Apolloni M. F., Canova, Giunti, 1992.
- Honour H., Neoclassicismo, Einaudi, 1968.
- Teolato C., I Righetti a servizio di Canova, Ediart, 2012.
- Toscano M., Petti C., Il “Real Museo Mineralogico” e il “satiro di Canova”. Il reparto e la stratificazione dei significati, Strategie di comunicazione della scienza nei musei, 2009.