“Figura” è il titolo di un importantissimo saggio del filologo e critico tedesco Erich Auerbach. Raccolto nei suoi “Studi su Dante”, questo saggio costituisce un punto di riferimento imprescindibile per l’interpretazione della Divina Commedia e in particolare per la comprensione di alcuni personaggi principali. Lo scritto apparve per la prima volta nella rivista «Archivum romanicum», 22 (1938) e fu poi ripubblicato nel 1944 insieme ad altri saggi in una collana dell’Università di Istanbul.
“Figura” è uno degli scritti critici che tutti i lettori della Divina Commedia dovrebbero tenere presente, perciò in questo articolo ne ripercorreremo i contenuti in modo sintetico, ma quanto più possibile dettagliato.
Indice dell'articolo
Chi era Erich Auerbach
Prima di entrare nel vivo di questo celebre saggio, è importante conoscere un po’ il suo autore: Erich Auerbach (Berlino, 1892 – Wallingford, Connecticut, 1957). Dopo aver conseguito il dottorato in filologia romanza, Auerbach fu professore di romanistica all’Università di Marburgo, dove successe a Leo Spitzer. Durante il periodo nazista, a causa delle sue origini ebraiche, nel 1936 fu costretto ad abbandonare la Germania e si rifugiò a Istanbul, dove insegnò fino al 1947. Successivamente si recò negli Stati Uniti: qui divenne professore all’Università della Pennsylvania, di Princeton e infine a Yale.
Auerbach fu una figura centrale nella critica letteraria del Novecento, e insieme a Curtius e Spitzer è considerato uno dei maestri della moderna critica stilistica. Il suo contributo allo studio della letteratura occidentale (in particolare francese e italiana) è stato importantissimo.
Di grandissimo rilievo furono i suoi studi sul realismo, raccolti in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, la sua opera più importante; ma anche quelli sulla letteratura medievale (in Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel medioevo), nonché i fondamentali Studi su Dante, all’interno dei quali si trova il saggio “Figura”, che approfondiremo di seguito.
Il saggio “Figura” di Auerbach
“Figura” è un saggio piuttosto lungo all’interno dei saggi danteschi di Auerbach; occupa circa una cinquantina di pagine ed è strutturato in quattro ampi paragrafi (che vedremo singolarmente nel dettaglio). Il critico impiega tutta la prima parte per ripercorrere la storia del termine “figura” e dell’interpretazione figurale della Bibbia. Egli vuole dimostrare che tale interpretazione della realtà storica (tipica dell’esegesi biblica) ebbe una grande fortuna e diffusione nel corso del Medioevo, rivestendo un ruolo predominante nella Divina Commedia di Dante Alighieri, l’opera che secondo lui «conclude e riassume la civiltà medievale».
Tale interpretazione spiegherebbe il forte realismo che caratterizza anche l’aldilà allegorico di Dante. Infatti, il realismo, non tipico di questo genere letterario, appare invece molto spiccato nella Commedia. Come spiega Auerbach, il concetto di “figura” indica proprio un elemento reale e storico, che però, allo stesso tempo, non annulla il suo significato più profondo. Dunque, l’interpretazione figurale ci fornisce un’ottima chiave di lettura che concilia l’aspetto allegorico con quello realistico.
“Figura” da Terenzio a Quintiliano
Nel primo paragrafo, Auerbach fa un excursus storico sull’uso della parola “figura” negli autori latini da Terenzio (in cui si ha la prima attestazione) a Quintiliano. All’origine il termine significa “formazione plastica”.
Nell’evoluzione della parola furono decisivi Varrone, Lucrezio e Cicerone. Nel primo la parola comincia a staccarsi dal significato di raffigurazione plastica (con valore di “apparenza” o “contorno”). Ma la vera novità è che in Varrone, per la prima volta, “figura” viene usato nel senso di “forma grammaticale” (e.g. “figura multitudinis” è in lui la “forma plurale”). Tale passaggio del termine a un significato astratto fu dovuto, secondo Auerbach, alla grecizzazione della cultura romana.
Lucrezio trasferisce il concetto dalla sfera ottica a quella acustica, e introduce l’importante passaggio dalla figura alla sua rappresentazione, dall’originale alla copia (si coglie chiaramente nel passo che tratta della somiglianza dei figli con i genitori; i figli sono “utriusque figurae”, del padre e della madre). In Lucrezio si trova anche, per la prima volta, “figura” nel senso di “visione di sogno”, “immagine fantastica”, “ombra del morto”.
Invece, in Cicerone“figura” indica per la prima volta i diversi livelli dello stile (“figura plena”, “mediocris” e “tenuis”).
Poi, Ovidio userà “figura” nel senso di “copia”, ma anche di “lettera dell’alfabeto” o per indicare la posizione nell’amplesso. Invece, in Vitruvio, “figura” è la forma architettonica e plastica, con un valore molto concreto.
Il fatto più notevole e decisivo per l’evoluzione della parola nel I sec. fu l’elaborazione del concetto di “figura retorica”, che troviamo nell’Institutio oratoria di Quintiliano.
“Figura” come profezia reale nei Padri della Chiesa
Nel mondo cristiano “figura” assume un nuovo significato, che troviamo per la prima volta in Tertulliano. Qui, ad esempio, la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù in Egitto è una “figura”, cioè una prefigurazione, una “profezia reale” della liberazione dell’umanità dal peccato realizzata da Cristo. In questo senso “figura” è qualcosa di reale, di storico, che rappresenta e annuncia qualche altra cosa, anch’essa reale e storica che verrà.
Allo stesso modo, da Adamo (“figura di Cristo”) viene plasmata Eva (“figura della Chiesa”). Questo tipo d’interpretazione vedeva nelle persone e nei fatti dell’Antico Testamento figure o profezie reali della redenzione nel Nuovo. Dal IV sec. tale interpretazione si diffuse in tutti gli autori ecclesiastici latini.
In Agostino quasi tutto l’Antico Testamento è oggetto d’interpretazione figurale. Tuttavia, in lui l’interpretazione si ramifica ulteriormente, sostituendo la contrapposizione di “figura” e “adempimento” in un’attuazione in tre gradi. L’Antico Testamento è sì figura profetica della venuta di Cristo, e questa a sua volta adempimento di quello, ma si aggiunge l’attuazione futura di questi avvenimenti come adempimento finale. Quindi, entrambi sono promesse di un adempimento che si realizzerà nel Regno dei Cieli.
Origine e analisi dell’interpretazione figurale
Per giustificare l’interpretazione figurale i Padri della Chiesa si richiamavano spesso ad alcuni passi della primitiva tradizione cristiana, derivanti per lo più dalle lettere di San Paolo. Le parti che contengono interpretazioni figurali vennero scritte tutte nel vivo della lotta per la missione pagana.
Queste hanno per lo più lo scopo di spogliare l’Antico Testamento del suo carattere normativo e di concepirlo come mera ombra del futuro. Dunque, per San Paolo l’Antico Testamento si trasforma da un libro di Legge e da una storia di Israele in una sola grande promessa e nella preistoria di Cristo: nulla ha un significato definitivo, ma tutto è un’anticipazione che ora si è adempiuta.
È molto importante non confondere il significato di “figura” con quello di “allegoria” o “simbolo”. Infatti, la “figura” è un elemento reale, storico e concreto che, pur nella sua concretezza e storicità, anticipa e prefigura un’altra cosa (“adempimento”) ugualmente reale, storica e concreta. Mosè in quanto “figura di Cristo” lo anticipa, ma non per questo è meno reale e concreto storicamente. L’allegoria e il simbolo, al contrario, non sono elementi reali, ma appunto “simbolici”, elementi della finzione che in realtà vogliono significare altre cose reali.
La figura e l’adempimento rimandano l’uno all’altro, e tutti e due rimandano a un futuro che è ancora da venire e che sarà l’accadimento pieno, reale e definitivo. Ciò non vale soltanto per la prefigurazione dell’Antico Testamento, che annuncia l’Incarnazione e la proclamazione del Vangelo, ma anche per queste ultime, che infatti non sono ancora l’adempimento finale e a loro volta sono la promessa della fine dei tempi e del vero regno di Dio.
La “figura” nel Medioevo secondo Auerbach
L’interpretazione figurale ebbe una larga diffusione e una profonda influenza fino al Medioevo e oltre, cosa che non è sfuggita agli studiosi, che più volte si sono imbattuti in rappresentazioni figurali (in letteratura come nella storia dell’arte) e le hanno discusse. L’interpretazione figurale restò operante nella maggior parte dei popoli europei fino al XVIII secolo. Essa costituisce la base generale dell’interpretazione medievale della storia, e spesso interviene anche nell’intendimento della semplice realtà quotidiana.
Si può grosso modo affermare – spiega Auerbach – che in Europa il concetto di “figura” risale a influssi cristiani, mentre quello di allegoria a influssi antico-pagani. Però ben presto si interpretarono figuralmente anche temi profani e pagani. Nell’alto Medioevo vengono ammessi nell’interpretazione figurale le Sibille, Virgilio, le figure dell’Eneide, e persino personaggi del ciclo bretone. Tutte queste forme si trovano anche (riferite sia a temi antichi sia cristiani) nella Divina Commedia. In essa le figure sono decisamente prevalenti e decisive per tutta la struttura del poema.
La figura di Catone Uticense
Una figura che deve essere interpretata in quest’ottica è quella di Catone Uticense, posto da Dante come custode del Purgatorio. Qui, la presenza di questo personaggio è molto sorprendente: infatti Catone è un pagano, un nemico di Cesare, un suicida, e furono molti i commentatori che se ne meravigliarono. Catone, in quanto suicida, non dovrebbe essere meno colpevole dei suicidi dell’Inferno. Ma dalle parole di Virgilio si capisce che la storia di Catone viene isolata dal suo contesto politico-terreno.
Dunque, per Auerbach, Catone è una “figura”, o piuttosto era tale il Catone terreno, che a Utica rinunciò alla vita per la libertà; il Catone che qui appare nel Purgatorio è l’adempimento, la realizzazione di quell’avvenimento figurale. Infatti, la libertà politica e terrena per cui è morto era soltanto una prefigurazione di quella libertà cristiana che ora egli è chiamato a custodire, di quella libertà da ogni cattivo impulso che porta all’autentico dominio su sé stesso. Si tratta della libertà eterna dei figli di Dio, che disprezzano ogni cosa terrena; la liberazione dell’anima dalla servitù del peccato, di cui qui è introdotta come “figura” la libera scelta catoniana della morte di fronte alla servitù politica.
La persona di Catone che ha anteposto la libertà alla vita è conservata in tutta la sua forza storica e personale: non diventa un’allegoria della libertà, ma resta Catone di Utica, l’uomo che Dante vedeva nella sua individuale personalità.
La figura di Virgilio
Un altro personaggio da interpretare come “figura” è Virgilio. Egli (a lungo considerato come allegoria della ragione) agli occhi di Dante è in pari tempo poeta e guida. Il Virgilio storico era una guida come poeta, e avendo descritto il regno dei morti ne conosceva la strada. Ma egli era destinato a fare da guida anche come uomo. La piena perfezione terrena, che autorizza a guidare fino alla soglie della visione divina, è impersonata per Dante già dal Virgilio storico, il quale è da lui considerato una “figura” per il personaggio, ora adempiuto nell’aldilà, del poeta-profeta che fa da guida.
Il Virgilio storico è “adempiuto” dall’abitante del Limbo che ha il compito di guidare Dante. Come egli un tempo aveva fatto scendere Enea nell’oltretomba, affinché egli conoscesse il destino del mondo romano, così ora egli è chiamato dalle potenze celesti a una funzione di guida non meno importante. Nell’incontro con Stazio, quest’ultimo dice a Virgilio di essere stato guidato da lui come poeta, ma anche come cristiano:
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti: ‘Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenie scende da ciel nova’.
Per te poeta fui, per te cristiano […].
[Purgatorio, XXII, vv. 67-73]
Così, come nella sua persona e nella sua influenza terrena Virgilio aveva guidato alla salvezza Stazio senza vedere egli stesso la luce che portava, così ora egli guida Dante fino alla soglia della luce, che conosce ma che personalmente non può guardare. Dunque, Virgilio è sé stesso, è il Virgilio storico, o meglio: il Virgilio storico è “figura” della verità adempiuta (altrettanto reale) che il poema rivela.
La figura di Beatrice
All’uomo abbandonato alla confusione terrena e minacciato di rovina viene in aiuto la grazia delle forze celesti. Dante fin dalla prima giovinezza godeva di una grazia particolare perché era destinato a un compito particolare; infatti aveva potuto vedere la rivelazione incarnata in un essere vivente: Beatrice. La morta, ora beata, che era stata per lui la rivelazione incarnata, trova ora per l’uomo smarrito l’unica via di salvezza che ci sia. Essa è la guida che prima indirettamente e poi, in Paradiso, direttamente, gli mostra l’ordine rivelato, la verità delle figure terrene. Quel che egli vede e impara nei tre regni è realtà vera, concreta, tale appunto che vi è contenuta e interpretata la “figura” terrena.
La Beatrice della Vita Nova è una persona storica, e fin dal primo giorno della sua apparizione è per Dante un vero miracolo mandato dal cielo, un’incarnazione della verità divina. I più vecchi commentatori vedevano di solito in Beatrice la teologia, mentre i più moderni hanno proceduto con metodi più precisi. Essa è figura o incarnazione della rivelazione divina che la grazia manda all’uomo per salvarlo, e che diventa per lui guida alla visione di Dio. Beatrice è “figura” o “idolo Christi” e quindi pur sempre anche una persona umana.
La “figura” di Auerbach e l’interpretazione della Commedia
La comprensione del concetto di figura spiegato da Auerbach e del carattere figurale della Commedia non ci offre un metodo valido universalmente per spiegare tutti i passi controversi. Tuttavia, essa fornisce alcuni principî per una corretta interpretazione.
Senza dubbio, ogni personaggio storico o mitologico che appare nel poema deve significare qualche cosa che ha uno stretto rapporto con ciò che Dante sapeva della sua esistenza storica o mitica; tale rapporto si configura precisamente in quello di figura e adempimento. Dunque, ci si deve guardare molto bene dal togliere ai personaggi tutta la loro esistenza storico-terrena per assegnare soltanto un valore allegorico-concettuale.
Rosario Carbone
Bibliografia
- Erich Auerbach, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 176-226.
- Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Milano, Mondadori, 2007.
- Luciana Martinelli, voce Auerbach, «Enciclopedia Dantesca», 1970.