È stata la mano di Dio (2021) è il nuovo film scritto e diretto da Paolo Sorrentino, prodotto da The Apartment e Netflix, vincitore del Leone d’argento alla 78esima edizione del Festival del cinema di Venezia.
Dopo la poco fortunata parentesi di Loro e le consolatorie serie Sky The Young Pope e The New Pope, Sorrentino torna dietro la macchina da presa, questa volta per firmare il suo film più sincero.
Un racconto autobiografico privo di qualsiasi egocentrica celebrazione, ma che lascia posto a una storia intima e delicata che affronta il tema del dolore della perdita. Una perdita importante, che arriva improvvisa e precoce e mai potrà essere completamente colmata.
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È stata la mano di Dio: la trama e i personaggi del film
Il nono film di Sorrentino si apre con una lunga sequenza aerea che ci mostra il Golfo di Napoli nei primi giorni di un’estate degli anni Ottanta. Una Napoli – che il regista ritrova (cinematograficamente parlando) dopo vent’anni esatti dalla sua opera prima – che sembra sospesa nella misteriosa attesa di conoscere il destino calcistico della squadra della città.
Sono i giorni, infatti, in cui si consuma l’estenuante trattativa tra il Barcellona e il Napoli per portare Diego Armando Maradona all’ombra del Vesuvio. Un’unica e fondamentale domanda affolla i vicoli e le strade partenopee: Maradona viene o no al Napoli?
La domanda risuona anche nei pensieri del protagonista del film che aspetta l’arrivo di Maradona come si aspetta una salvifica rivoluzione che possa cambiare non solo la sua vita ma quella di tutto il microcosmo partenopeo.
L’alter ego adolescenziale di Sorrentino è Fabietto (Filippo Scotti), ultimo figlio dei coniugi Schisa (interpretati dal solito Toni Servillo e da una bravissima Teresa Saponangelo), incarnazione della coppia perfetta ma che sotto al tappeto nasconde tanta polvere.
Fabietto è un ragazzino schivo e solitario che osserva quella fauna grottesca che popola la sua famiglia. Una tribù dal sapore quasi felliniano che ruota intorno a un’esistenza ancora tutta da scoprire, ancora tutta da costruire.
Il suo sguardo malinconico, eppure così curioso e sensibile, vagabonda tra quelle figure strambe che sono i suoi parenti. Si posa poi su quella che gli sembra l’unica persona apparentemente normale. Il richiamo erotico dell’avvenente e provocante zia Patrizia (Luisa Ranieri) è troppo forte. Ed ecco che Fabietto si trova a dover fare i conti con le sue prime pulsioni sessuali. Una forza che il ragazzo cercherà a fatica di reprimere.
Poi c’è Maradona – che alla fine al Napoli ovviamente ci è andato – che per Fabietto è una sorta di divinità scesa in terra. Un messia del pallone capace non solo di “atti politici”, ma anche di eroici miracoli quotidiani. Come quello di chiamare a sé (“in curva B, naturalmente”) il giovane Fabio, sottraendolo a un tragico destino.
Continua a osservare, Fabietto (d’altronde è “l’unica cosa che sa fare”), quell’universo buffo e protettivo che sarà tragicamente destinato a scomparire all’improvviso. Una fuga di monossido di carbonio nella nuova casetta di montagna che, inesorabilmente, porta via le anime di Saverio e Maria. Una tragedia silenziosa e inaspettata che scuote il piccolo mondo degli Schisa. Fabietto, che prima della prematura morte dei suoi genitori era in costante ricerca di quel suo posto nel mondo, si ritroverà solo e spaesato. Colmo di un dolore inspiegabile e insanabile, sarà costretto a diventare uomo anzitempo.
Fabio si rifugia in lunghi e isolati silenzi. Nemmeno più la passione per il calcio e quel Maradona che addirittura gli ha salvato la vita sembrano potergli restituire vitalità. Fabio prova a evadere da quella realtà così “scadente” ricercandone una tutta propria attraverso il suo, forse, unico talento: l’immaginazione.
La regia, i temi e il significato di È stata la mano di Dio
È difficile collocare È stata la mano di Dio in un preciso genere cinematografico. Il film nella prima parte sembra una commedia. Ci viene mostrato un pittoresco ritratto di una napoletanità privilegiata che si esprime attraverso i caratteri, le misteriose credenze popolari e un dialetto puro e realistico. Sorrentino rappresenta in modo leggero e allegro, quasi giocoso, quello che è stato il palcoscenico della sua giovinezza.
E lo fa attraverso il punto di vista innocente e sincero di Fabietto Schisa. Lo spettatore è quindi portato a vestire le colorate camicie e a inforcare le cuffie del walkmen del protagonista ed è invitato a vedere il suo stesso spettacolo. Uno show interpretato da un dedalo di maschere singolari e originali che ha arricchito e ispirato il mondo interiore del Sorrentino autore.
La tragedia come punto di svolta
Ma proprio come nella realtà, anche nel film la tragedia arriva inaspettata e cinica. Nella seconda metà della pellicola infatti, il regista sostituisce la commedia con il dramma, la gioia con il dolore. La presenza diventa assenza e la solitudine e il silenzio si fanno spazio prepotentemente nel mood emotivo dell’opera, cambiandone ritmo, toni e colori.
Sorrentino sveste i panni dell’autore esteta, rinunciando a tutto quel manierismo che ha caratterizzato le sue ultime opere. Ritorna così a essere il narratore spietato e minimale dei suoi primi film. I virtuosismi registici della prima parte scompaiono e lasciano il posto a una regia sapiente e minimalista. La macchina da presa si fissa, come immobilizzata anch’essa nel dolore e nella solitudine improvvisa.
Sorrentino ci fa muovere insieme al suo alter ego filmico in un mondo vuoto. Un mondo in cui tutto è improvvisamente diventato decadente e da cui non sembra esserci alcuna via di fuga. La domanda più grande che resta nello spettatore è: come farà Fabietto a ritornare alla vita?
E per rispondere a questa domanda ecco che arriva, silenzioso come un fulmine a ciel sereno che poi si porta dietro tutto il fracasso del tuono e della tempesta, quel Deus ex machina incarnato da uno scorbutico Antonio Capuano. Il nome del regista napoletano aleggia tra le scene del film, ma Sorrentino ce lo mostra solamente nell’ultimo quarto d’ora. La scena che lo vede protagonista è l’apice visivo e narrativo di tutta la pellicola, in cui si raggiunge un’altissima potenza emotiva. È la resa dei conti per Fabio. Le parole crude e spietate, ma vere e sincere di Capuano, arrivano al ragazzo (e anche al pubblico) come una fucilata alla bocca dello stomaco.
«’A tien’ na cosa a raccunta’?» chiede Capuano a uno scombussolato Fabio. Lui risponde un “Sì” che ha il sapore di una devota promessa a quello che sarà il suo destino da narratore. E così, mentre il sole sorge e illumina debolmente le acque calme del Golfo di Napoli, si conclude l’Epifania del giovane Fabio.
“Napule è” di Pino Daniele, in un equilibrio perfetto tra diegetico ed extra-diegetico, è la chiusura perfetta di un percorso e l’inizio di uno nuovo. Tutto il resto è storia (del cinema).
Le imperfezioni del film di Sorrentino
Nonostante il nuovo film di Sorrentino sia il suo miglior prodotto degli ultimi tempi da un punto di vista dei contenuti, È stata la mano di Dio è tutt’altro che un film perfetto.
Il talento registico del suo ideatore è, ancora una volta, fuori discussione, così come quello di chi ha confezionato visivamente il prodotto. La fotografia di Daria D’Antonio (dopo la lunga autarchia di Luca Bigazzi) è essenziale e fine e si sposa alla perfezione con i costumi di Mariano Tufano e le scenografie di Carmine Guarino, che ricreano – in totale simbiosi – un mood visuale e un’ambientazione napoletana anni’80 realistica e veritiera, priva di ormai noiosi e abusati stereotipi “alla Gomorra”.
Ciononostante, la nuova opera cinematografica sorrentiniana zoppica sotto alcuni aspetti. Uno di questi è sicuramente la scarsa unità del film. Mentre in alcune parti del racconto c’è un armonia quasi perfetta, in altre le sequenze sembrano scollegate tra loro. Si crea così un fastidioso senso di sfilacciamento narrativo.
Inoltre, l’arco dei personaggi secondari – che alla fine si rivelano essere delle macchiette – non viene mai portato a conclusione. Basti pensare che dopo la scena del funerale di Saverio e Maria Schisa, i divertenti e pittoreschi parenti di Fabietto scompaiono dal film. Emblematica è la battuta con cui zio Franco (Massimiliano Gallo) si congeda dalle scene. Lo zio invita l’orfano Fabio ad andare a trovare sua zia Patrizia, inspiegabilmente assente al funerale della sorella. D’altronde lui è sempre stato il suo nipote preferito.
Quindi, qualche scena dopo, scopriamo che la provocante zia Patrizia (che non è più così provocante) è reclusa in una clinica psichiatrica. E qui si manifesta l’altro grande problema del film di Sorrentino: il senso dei monologhi e dei dialoghi.
Sorrentino ci aveva abituato a meravigliosi monologhi, come quello di Tony Pisapia ne L’uomo in più o di un fossilizzato filmico Giulio Andreotti ne Il Divo, oppure a utilizzare il mezzo cinematografico per raccontare parti di una storia senza ricorrere alle didascalie ma solo ed esclusivamente con le immagini, come la sequenza de Le conseguenze dell’amore in cui – con in sottofondo Rossetto e cioccolato di Ornella Vanoni – ci mostra il geniale piano di Titta De Girolamo per fregare i suoi aguzzini mafiosi. In È stata la mano di Dio questo non accade praticamente mai e il monologo di zia Patrizia, che non è altro che un noioso “spiegone” di come sia finita in quella clinica, ne è la prova tangibile.
E così, anche il personaggio di zia Patrizia saluta il film in maniera non troppo esaltante. Un errore abbastanza grossolano del regista. Soprattutto nei confronti del personaggio interpretato da Luisa Ranieri, a cui dedica l’incipit iniziale e gran parte della prima metà di film. Così, Sorrentino dimostra di non essere riuscito a scavare veramente a fondo nell’animo dei personaggi. Personaggi che, veri o fittizi che siano, sono stati comunque importanti per la sua crescita.
Pensare alle autobiografie al cinema fa correre la memoria ad alcuni grandi cineasti del passato. Si pensa inevitabilmente a 8 e 1/2 di Federico Fellini (qui richiamato esplicitamente più volte a partire dall’incipit) e a Lo specchio di Tarkovsky. Tutte opere che, pur partendo da un’urgenza “privata” dei loro autori, non si limitavano a fungere da superficiale cronistoria di un evento in particolare. Ognuna col proprio stile di racconto, infatti, puntava molto più in alto o più in profondità se vogliamo.
È stata la mano di Dio: la catarsi di Paolo Sorrentino
Inutile dire quanto sia stato catartico per Sorrentino mettersi a nudo davanti al pubblico e inscenare il pezzo più importante della sua esistenza, ma tutti questi dettagli fuori posto rendono È stata la mano di Dio un prodotto più votato all’entertainment che all’autorialità. Forse, la presenza di un colosso come Netflix – che per i suoi prodotti adotta dei dogmi molto specifici e inflessibili – ha influito non solo sulle scelte registico-autoriali, ma proprio sull’intera costruzione del film.
Resta il fatto che il coraggio e lo sforzo di Sorrentino di ritornare al cinema con una storia personale e con un tema così delicato è da stand-in ovation e solo un regista della sua portata poteva affrontare, a distanza di molti anni, conditi da tanta sofferenza ma anche tanto successo, l’evento che l’ha reso l’uomo (e l’artista) che è oggi.
Marco Sito