La lingua di Dante: perché Dante è il padre dell’italiano?

La lingua di Dante è di fondamentale importanza per comprendere l’italiano di oggi. Non per nulla spesso ci riferiamo a Dante come “padre della lingua italiana” (espressione affermatasi nel fervore patriottico del Risorgimento). Tuttavia, non sempre risulta chiaro a tutti il motivo per cui il nostro Poeta venga, giustamente, definito tale. In effetti, si potrebbero fare due corrette osservazioni. Primo: la lingua di Dante è abbastanza diversa dall’italiano odierno; secondo: Dante non è stato il primo autore della letteratura italiana, ma esiste un’abbondante letteratura in volgare italiano già prima di lui.

Tali osservazioni lascerebbero quindi pensare che l’abusata definizione di “padre della lingua italiana” sia un’esagerazione retorica, e invece no. Dante è realmente il padre dell’italiano, per motivi molto concreti e oggettivi.

In questo articolo cercheremo di analizzare le caratteristiche della lingua di Dante, per spiegare poi perché è corretto attribuire a Dante l’invenzione della bellissima lingua che ancora oggi parliamo.

Unicità della lingua italiana

Prima di parlare della lingua di Dante, dobbiamo mettere in evidenza alcune caratteristiche che distinguono l’italiano dalle altre lingue europee (romanze e no). Innanzitutto, se noi oggi proviamo a leggere un testo antico come la Divina Commedia, troveremo senz’altro delle difficoltà linguistiche; tuttavia queste non ci impediranno di capire buona parte del testo e di comprenderlo, anche nelle parti più complesse, con l’aiuto di un buon commento. Insomma, avremo bisogno al massimo di un commento e non di una traduzione.

Ebbene, questo non avviene con le altre principali lingue europee: i francesi, gli spagnoli, i tedeschi o gli inglesi non potranno mai leggere i loro classici medievali se non sono accompagnati da una vera e propria traduzione. Infatti, tra l’italiano di Dante e quello odierno (con le dovute differenze) esiste una continuità evidente; mentre un francese dovrà ricorrere a una traduzione per leggere i testi scritti in francese antico, proprio come se fosse una lingua straniera.

Inoltre, un’altra peculiarità dell’italiano riguarda la sua origine squisitamente letteraria. Cioè, in Italia, a differenza degli altri Paesi, non è stata una Nazione già formata a dare vita a una letteratura, ma esattamente il contrario. L’italiano in pratica è nato prima ancora della stessa Italia! Originatosi dal volgare fiorentino si è poi affermato non per motivi politici (come è normalmente accaduto altrove), ma per motivi prettamente culturali e letterarî.

Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Ariosto, Tasso, Leopardi, Manzoni scrivevano in italiano quando l’Italia come Stato unitario ancora non esisteva. La nostra è quindi una Nazione che prima ancora di essere unita politicamente è stata unita per secoli da una grande tradizione letteraria.

In che lingua scriveva Dante?

La lingua di Dante era certamente il volgare fiorentino, quello che lui stesso identificava come il suo “parlar materno” e che all’epoca era solo uno dei tanti volgari parlati nella penisola. La fiorentinità della lingua parlata da Dante ci è rivelata anche da alcuni passi della Commedia. Nel X dell’Inferno Farinata si rivolge a lui con queste parole: «O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto» (Inf., X, 22-23), e anche il conte Ugolino riconosce il poeta dalla sua parlata: «io non so chi tu sè né per che modo / venuto sè qua giù; ma fiorentino / mi sembri veramente quand’io t’odo» (Inf., XXXIII, 10-12).Dante

Eppure bisogna evidenziare che stabilire in modo definitivo quale sia la lingua di Dante non è così scontato come sembra. Infatti, a differenza di altri poeti antichi come Petrarca o Boccaccio, di Dante non possediamo neanche un rigo scritto di suo pugno. Non esiste alcun autografo del poeta, ma le sue opere sono state tramandate solo attraverso le copie presenti nei numerosissimi manoscritti in circolazione.

Questo non è un dettaglio da poco, poiché in base alla provenienza geografica del copista la patina linguistica del manoscritto poteva variare sensibilmente. Infatti, all’epoca i copisti non si facevano troppi scrupoli nell’adattare (più o meno volontariamente) il testo copiato alla propria variante linguistica. Dunque, è evidente che tali circostanze hanno costituito un problema serio per tutti i filologi che si sono cimentati nel ricostruire l’originaria patina linguistica delle opere dantesche.

Le caratteristiche della lingua di Dante

Nonostante i problemi evidenziati, le interferenze dei copisti non sono riuscite a occultare la base fiorentina della lingua di Dante, una fiorentinità che si evidenzia in particolar modo nella struttura fonetica e morfologica. Sono molte le forme usate da Dante che hanno in sé caratteri inequivocabilmente fiorentini. Tra le più importanti vi sono il fenomeno linguistico dell’anafonesi (assente in altre città della stessa Toscana come Siena o Arezzo) per cui troviamo parole come consiglio, gramigna, lingua anziché conseglio, gramegna, lengua. Altro fenomeno fiorentino è il suffisso –aio di parole come portinaio, primaio, paio (esito del suffisso latino –arium). Ma anche una forma ormai non più usata come la desinenza –aro per la terza persona plurale del passato remoto, per intenderci andaro, mandaro, restaro al posto di andarono, mandarono, restarono.

Inoltre, si è notato come spesso Dante nella Commedia prediliga usare forme linguistiche un po’ più arcaiche rispetto a quelle usate al suo tempo, cioè forme presenti più nel fiorentino degli ultimi decenni del Duecento (epoca della sua giovinezza) che in quello del Trecento. Ciò forse per conferire alla scrittura un tono più solenne; oppure perché rimase legato alla lingua della sua giovinezza, dal momento che all’inizio del Trecento egli si trovava già in esilio fuori dalla città.

Tipicamente fiorentina è anche la rigida osservanza della cosiddetta legge Tobler-Mussafia che vietava di iniziare una frase con una particella pronominale atona, la quale doveva obbligatoriamente porsi in posizione enclitica al verbo. Per intenderci: non si poteva iniziare una frase con “Si dice” o “Ti priego”, ma obbligatoriamente con “Dicesi” e “Priegoti”. Tale regola è rimasta come fossile linguistico in espressioni usate ancora oggi come appunto “dicesi” o “affittasi”.

Il vocabolario di Dante

La lingua di Dante è profondamente fiorentina anche nel lessico utilizzato. Questo si può constatare sia considerando le moltissime parole di uso quotidiano (verbi come andare, dire, sentire, vedere; aggettivi come alto, basso, nuovo, bello; sostantivi come occhio, casa, bocca, figlio; nonché preposizioni e congiunzioni come di, da, con, per, ma, ecc.), sia parole più rare ed espressive. Queste ultime naturalmente raggiungono la massima concentrazione nella prima cantica, dove risultano utili per descrivere gli orrori infernali.

Compaiono vocaboli fiorentini di pregnante concretezza come broda, cigolare, digrignare, ghiottone, gracidare, graffiare, grattare, groppa, latrare, letame, lezzo, marcio, moncherino, muffa, muso, piaga, pizzicore, porcile, scabbia, sputare, sterco, succhio, sudore, zuffa, ma anche parole di livello basso comprensibili solo dai fiorentini come biscazzare (sperperare), nicchiarsi (gemere sommessamente), scuffare (soffiare rumorosamente), né mancano termini triviali come puttana, puttaneggiare, merda, culo e molto altro ancora.

L’uso del fiorentino esteso a questi registri di livello basso e scurrile è essenziale per dare potenza espressiva al realismo dantesco.

Il plurilinguismo dantesco

Come si è già accennato, uno degli aspetti più originali della lingua di Dante, in particolare nella Commedia, è proprio l’uso del lessico. Il vocabolario del Poema sacro è estremamente ricco e variegato, rompe gli schemi e si manifesta con un’ampiezza e una libertà espressiva per cui si è soliti riferirci a esso con l’espressione “plurilinguismo”.

Dando uno sguardo d’insieme alle tre cantiche, potremmo dire che l’Inferno si caratterizza per un linguaggio più basso, colloquiale, realistico ed espressionistico; il Purgatorio si pone a un livello intermedio con toni più misurati, dolci e limpidi; mentre il Paradiso presenta un lessico molto più aulico, metaforico e simbolico, la lingua si fa più difficile arricchendosi di latinismi e di neologismi per esprimere l’inesprimibile.

L’uso massiccio di latinismi, soprattutto nel Paradiso, costituisce una delle caratteristiche più tipiche della ricca lingua di Dante. Queste parole sono prese a prestito dagli autori latini, dalle Sacre Scritture e delle fonti della cristianità medievale. Molti di questi latinismi sono diventate parole comuni nell’italiano di oggi (eccellente, egregio, puerile, illustre), ma nell’uso dantesco dovevano avere un tono assai più elevato.

Una buona parte di queste parole colte era già stata assimilata dal volgare nelle epoche precedenti, ma moltissimi sono anche i latinismi di prima mano, cioè introdotti nel volgare per la prima volta da Dante (sodalizio, fertile, mesto, molesto, quisquilia, denso). Non ci sono dubbi che molti latinismi di questo tipo debbano la loro fortuna proprio all’uso dantesco.

Altri caratteri del plurilinguismo dantesco: grecismi, dialettalismi e lingue straniere

Ma la Commedia è anche ricca di grecismi come ad esempio lo stesso titolo comedìa, ma anche perizoma, tetragono, epa, letargo. A questo gruppo appartengono numerosi tecnicismi di derivazione tecnico-scientifica. Non mancano anche i dialettalismi, cioè forme linguistiche non fiorentine usate solitamente in riferimento a personaggi provenienti da altre parti d’Italia o in riferimento alla gloriosa tradizione dei poeti siciliani (un sicilianismo ad esempio è disio usato al posto di desiderio).

Numerosi sono poi i gallicismi, cioè prelievi dal francese-provenzale come augello, cangiare, gioia, gioire, noia, gabbo, visaggio, grifagno, veltro, e molti altri. Un gallicismo è anche il fortunato termine bolgia che in origine aveva il significato di sacco/borsa (da buge/bouge), ma che con Dante ha assunto un nuovo significato legato alla topografia infernale, nel senso di “fossa in cui si puniscono i peccatori” (oggi con il senso di “luogo affollato e confusionario”).

All’interno della Commedia troviamo anche veri e propri inserti in lingua straniera, come i versi in provenzale attribuiti al trovatore Arnaut Daniel nel Purgatorio e quelli in latino con cui si apre il discorso di Cacciaguida nel Paradiso. Infine, non vanno dimenticate le celebri frasi in lingue incomprensibili, entrambe presenti nell’Inferno e attribuite a creature diaboliche: «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!» (Inf., VII, 1) e «Raphèl maì amècche zabì almi» (Inf., XXXI, 67).

Parole inventate da Dante: i neologismi

La lingua di DanteTra le più originali fonti di arricchimento lessicale introdotte dalla lingua di Dante vi sono senza dubbio i neologismi, vere e proprie parole inventate dal Poeta. Infatti, grazie a queste parole Dante fu in grado di superare i limiti imposti dalla lingua, riuscendo a piegarla alle sue esigenze.

Troviamo il numero maggiore di neologismi nel Paradiso, essi sono per lo più legati alla “poesia dell’ineffabile”, cioè vengono usati per esprimere cose che la lingua umana non poteva esprimere per via della loro estrema bellezza, grandezza o intensità.

La maggior parte delle coniazioni dantesche sono formazioni verbali parasintetiche (cioè composte da più elementi) che utilizzano il prefisso in-. Quindi troviamo parole come inurbarsi (entrare in città), infuturarsi (prolungarsi nel futuro), inventrarsi (stare nel ventre), imparadisare (innalzarsi a gioie paradisiache), indiarsi (penetrare in Dio, unirsi a Lui), incinquarsi, intrearsi, inmillarsi, insemprarsi, insusarsi, indovarsi, inforsarsi, intuarsi, inmiarsi, inluiarsi, inleiarsi (penetrare in te, in me, in lui, in lei).

Ma si trovano anche svariati neologismi basati su strutture diverse, come appulcrare (abbellire), arruncigliare (afferrare col ronciglio), dirocciarsi (scendere giù da una roccia), dilibrarsi (uscire dall’equilibrio), dislagarsi (elevarsi da una distesa d’acqua), dismalare (liberare dal male), transumanare (trascendere l’umano), trasmodarsi (oltrepassare il limite) oppure semplici derivazioni denominali come pennelleggiare o sempiternare.

L’italiano e gli altri volgari

Nel Medioevo l’Italia era divisa linguisticamente in una grande quantità di volgari molto diversi tra loro. Tutti questi volgari (così chiamati perché parlati dal popolo, in latino “vulgus”) si erano originati da una lenta evoluzione del latino e vivono ancora oggi nei nostri dialetti. Si trattava di lingue che inizialmente erano solo parlate, ma che a partire dal X secolo iniziarono a lasciare delle testimonianze scritte.

I primi testi propriamente letterarî emergeranno solo tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo. Si tratta di testi che, però, non sono scritti in “italiano”, ma in volgare appunto. Se pensiamo ad esempio al Cantico delle creature di Francesco d’Assisi o alla poesia della Scuola siciliana, ci accorgeremo che il primo è scritto in volgare umbro, mentre la seconda in volgare siciliano.

Fra tutti questi volgari d’Italia, però, ce n’era uno, il fiorentino, che nel corso del tempo affermò il proprio prestigio anche fuori da Firenze e dalla Toscana trasformandosi poi in quello che oggi è l’italiano.

Dal fiorentino all’italiano

Come abbiamo detto, alla base del nostro italiano c’è il volgare che si parlava a Firenze. Il primo testo in volgare fiorentino giunto fino a noi è del 1211; si tratta dei Frammenti d’un libro di conti di banchieri fiorentini e risale a poco più di cinquant’anni prima della nascita di Dante. In questa fase il fiorentino è solo uno dei tantissimi volgari parlati in Italia.

Tuttavia, dopo Dante la situazione cambia profondamente. Grazie alla Divina Commedia egli potenzia a tal punto l’uso del volgare fiorentino da lasciare in eredità agli scrittori successivi una lingua capace di parlare di tutto e in grado di sostituire il latino come lingua di cultura. È proprio con la Commedia che il fiorentino acquisirà un prestigio tale da imporsi su tutti gli altri volgari.

Il successo di quest’opera infatti fu immediato ed enorme. Già nel 1317 alcuni notai bolognesi annotano nei loro documenti dei versi dell’Inferno. Dopo la morte di Dante questo successo esplose con un dilagare di codici manoscritti del poema (800 sono solo quelli giunti fino a noi). Inoltre, la Commedia inizierà da subito a essere commentata, proprio come un vero classico (i primi a farlo saranno gli stessi figli del Poeta, Pietro e Iacopo). Anche le letture pubbliche in varie città d’Italia (come quella fatta a Firenze tra il 1374 e il 1375 da Giovanni Boccaccio) contribuiranno alla diffusione orale del poema.

La lingua di Dante diventerà un modello, viene ripresa, riecheggiata, imitata. Chi scrive in volgare dopo Dante adotta una lingua che, pur in misure variabili, risente dell’influsso fiorentino. Questo processo, già avviato, verrà poi consolidato definitivamente grazie alla diffusione delle opere di Petrarca e Boccaccio. Alla fine del Medioevo si può dire che l’italiano è ormai nato.

L’opera regolatrice di Pietro Bembo

Pietro Bembo
Pietro Bembo

Un ruolo fondamentale nella scelta del fiorentino come lingua comune per la letteratura è stato assunto da Pietro Bembo all’inizio del ’500 e, qualche secolo dopo, anche da Alessandro Manzoni. Bambo, nelle sue Prose della volgar lingua, indicò come modelli da seguire Petrarca e Boccaccio, rispettivamente per la poesia e per la prosa.

Al contrario, egli non riteneva la lingua di Dante un modello valido proprio per via del plurilinguismo e dell’espressionismo di cui si è parlato sopra (si prediligeva un modello di lingua classicista più misurata ed equilibrata). Tuttavia Bembo collaborò con il grande tipografo veneziano Aldo Manuzio nella realizzazione dell’edizione a stampa della Commedia (con il titolo Le terze rime di Dante) lanciando l’opera sui mercati italiani ed esteri.

Alessandro Manzoni
Alessandro Manzoni

Successivamente, nel XIX secolo, Alessandro Manzoni deciderà di revisionare i suoi Promessi Sposi “risciacquandoli in Arno”, cioè riscrivendoli usando il fiorentino parlato dalle persone colte alla sua epoca. La diffusione del suo romanzo, anche grazie alle letture scolastiche, decretò il successo definitivo della lingua fiorentina che era ormai diventata lingua italiana.

L’eredità della lingua di Dante

Arrivati a questo punto si sarà compreso quanto Dante sia stato importante per la nascita della lingua italiana, e quanto la sua lingua, pur diversa da quella odierna, si ponga però in strettissima continuità con la lingua che oggi parliamo.

Inoltre, non dimentichiamo che Dante con il suo trattato De vulgari eloquentia è stato il primo studioso e teorico della lingua volgare, andando alla ricerca di un “volgare illustre” che fosse degno per la letteratura. Insomma, egli per primo ha dato dignità alla lingua volgare in un’epoca in cui l’unica lingua culturalmente rilevante era il latino.

Passando dalle parole ai numeri, il linguista Tullio De Mauro ci ha fornito dei rilievi statistici sorprendenti per capire quanto ancora oggi dobbiamo alla lingua di Dante:

«Quando Dante comincia a scrivere la Commedia il vocabolario fondamentale è già costituito al 60%. La Commedia lo fa proprio, lo integra e col suo sigillo lo trasmette nei secoli fino a noi. Alla fine del Trecento il vocabolario fondamentale italiano è configurato e completo al 90%. Ben poco è stato aggiunto nei secoli seguenti. Tutte le volte che ci è dato di parlare con le sue parole, e accade quando riusciamo ad essere assai chiari, non è enfasi retorica dire che parliamo la lingua di Dante. È un fatto».

[De Mauro, 1999]

Quello che De Mauro definisce come “vocabolario fondamentale” sono le circa duemila parole a più alta frequenza, quelle che usiamo per esprimere le cose fondamentali. Di queste duemila parole, quasi milleottocento (il 90%) si trovano già nella Divina Commedia.

È vero che molte di queste erano parole già esistenti, ma, come lo stesso De Mauro affermò, una parola attestata nella Commedia possiede oltre il doppio delle possibilità di arrivare a noi rispetto a una qualsiasi parola antica.

Rosario Carbone

Bibliografia sulla lingua di Dante

  • Ignazio Baldelli, Lingua e stile delle opere in volgare di Dante, in Enciclopedia Dantesca, 6. voll., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970-1978, VI, 1978, pp. 55-112.
  • Gianfranco Contini, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1976.
  • Tullio De Mauro, Postfazione al GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso), 6 voll., Torino, UTET, 1999, VI, pp. 1163-1183.
  • Paola Manni, La lingua di Dante, Bologna, il Mulino, 2013.
  • Luca Serianni, Parola di Dante, Bologna, il Mulino, 2021.
  • DanteSearch, Corpus lemmatizzato delle opere volgari e latine di Dante con annotazione morfologica e sintattica: https://dantesearch.dantenetwork.it
  • TLIO: Tesoro della lingua italiana delle Origini, Firenze, Opera del Vocabolario Italiano: http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/
  • Vocabolario Dantesco, a cura dell’Accademia della Crusca e dell’Istituto CNR Opera del Vocabolario Italiano: www.vocabolariodantesco.it