Il conte Monaldo Leopardi è stato un letterato, storico e politico di rilievo vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. Nei manuali scolastici egli è descritto solamente come severo padre del più famoso Giacomo. L’obiettivo di questo articolo è quello di mostrare chi fu Monaldo, in quanto uomo, storico, politico e letterato e non lasciare che venga ricordato solamente come il padre di Giacomo Leopardi.
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Vita di Monaldo Leopardi
Monaldo Leopardi nacque il 16 agosto 1776 dal conte Giacomo Leopardi e dalla marchesa Virginia Mosca di Pesaro. Purtroppo, a poco più di quattro anni, perse il padre. Riuscì a superare il lutto solo grazie all’affetto dei suoi amatissimi fratelli. Verso di loro aveva sempre nutrito grandissima stima. Infatti il suo primo vero grande lutto fu proprio la morte della sorella.
Il rifugio dei tre fu il sacerdote don Vincenzo Ferri, cappellano di casa Leopardi, che li “contentava in tutti i desideri”. Rimase vicino alla famiglia Leopardi fino al 1806, anno in cui morì.
L’educazione di Monaldo fu affidata al gesuita Giuseppe Torres. Si tratta di una figura fondamentale: considerato “padre ed amico”, “amato sempre”. Tuttavia egli è presentato anche come “l’assassino degli studi”, perché non fu del tutto un buon maestro. Fu proprio per la cattiva propensione all’insegnamento del Torres che il Conte si definiva tutt’altro che un “uomo dotto”, ma solo capace di sentire “brama ardentissima di sapere”.
È grazie a questa sensazione di inferiorità culturale rispetto al mondo e al suo infinito desiderio di conoscere che Monaldo sarà spinto a creare quella biblioteca al primo piano del famoso palazzo di Recanati, in quella che oggi è chiamata piazza Sabato del Villaggio, che sarà la base dei tanti “matti e disperatissimi” studi dei figli.
A diciotto anni appena compiuti Monaldo assunse la responsabilità del patrimonio familiare. Infatti quando nel 1781morì il padre, aveva neppure cinque anni compiuti. Egli accolse con gioia il compito. A ciò si accompagnò l’impegno nel creare un immagine di sé stesso che lo rendesse degno di rispetto. Ma al suo desiderio di crescere si opponeva la madre. Quest’ultima lo faceva accompagnare dal ‹‹pedante››, un precettore: cosa che infastidì sempre Monaldo, tanto da ricordare tra le cose più dolci della sua vita il giorno in cui tornò per la prima volta a casa da solo.
Dopo varie peripezie amorose, la mattina del 27 settembre 1797 si sposò con Adelaide Antici, che portò avanti quindici gravidanze, di cui cinque furono sventurate.
Monaldo Leopardi e Napoleone Bonaparte
L’enciclopedia Treccani definisce reazionario ‹‹chi si oppone ad ogni riforma o innovazione, mostrandosi tendenzialmente ostile al progresso››. E’ proprio questo aggettivo che ha spesso accompagnato, e ancora oggi definisce, Monaldo Leopardi.
Egli fu sempre ostile alle novità del suo tempo. Questo è grandemente dimostrato dalla sua avversione a tutti i princìpi e le idee che provengono dalla Rivoluzione Francese.
Si era rimasti al giorno delle nozze del conte. Egli si sposò esattamente venti giorni dopo il colpo di stato che diede il potere a ‹‹quel tristo›› di Napoleone Bonaparte.
Quest’ultimo, il 18 brumaio dell’anno VIII dalla nascita della Repubblica (9 novembre 1799), rovesciò il Direttorio. Istituì poi un nuovo organo di governo, il Consolato. Lo guidò – affiancato da Sieyes e Ducos, abilissimi politici – fino al 1804: anno in cui si fece proclamare “Imperatore” dei Francesi.
La missione di cui Napoleone si sentì incaricato fu quella di esportare il modello Repubblicano, conseguente alla Rivoluzione, in tutto il resto d’Europa.
Così, ancor prima del golpe, tra il 1796 e il 1797, sotto le vesti e l’appellativo di Generale, condusse l’Armata d’Italia nelle omonime Campagne, di cui Monaldo fu attento testimone, segnalando persino il passaggio del Generale Bonaparte:
Alli tredici o quattordici, o quindici del mese, non ricordo il giorno preciso, passò Napoleone Buonaparte […]. Tutto il mondo corse a vederlo. Io non lo vidi perché, quantunque stassi sul suo passaggio nel Palazzo comunale, non volli affacciarmi alla Fenestra giudicando non doversi a quel tristo l’onore che un galantuomo si alzasse per vederlo.
“Quel tristo” di Napoleone nell’Autobiografia può sembrare una figura di poco rilievo. Monaldo infatti sceglie di dedicargli poco meno che un paragrafetto.
Ma ciò non tragga in inganno.
E’ a lui che il conte dedica il Dialogo terzo di quei famosi Dialoghetti sulle materie correnti dell’anno 1831, pubblicati nel 1832, e contenenti, in forma dialogica, molte riflessioni di ambito politico e morale.
Nel testo è lui stesso ad assumere le sembianze dell’uomo che ha sempre disprezzato e tramite le sue stesse parole riesce a rendere piccola, insignificante, ignobile ogni sua azione.
Napoleone. Pazzi: io amavo me stesso, e non odiavo i Borboni. Ne uccisi uno per politica, e li avrei uccisi tutti, come avrei scannato tutti i monarchi dell’universo se il mio interesse avesse domandato la loro morte, ma non li odiavo. Il mio cuore non conosceva né amore, né odio, e il mio respiro erano solamente l’orgoglio e l’ambizione. Per questa ho sterminata l’Europa, e ho fatto vedove quasi tutte le donne francesi. Io sono stato il tiranno della Francia, non Carlo X, erede legittimo di sessantanove legittimi re, e me, non quegli, dovevate sbalzare dal trono, se foste stati prodi come siete pazzi e sleali.
Da un lato c’è Napoleone: “quel furbaccio”, tranquillo, che sente di essere sempre stato schietto con il suo popolo. L’imperatore è convinto di aver sempre reso noto che tutto ciò che faceva era per sé stesso, per il suo orgoglio ed ego, non per la nazione, non in nome dei francesi. Dall’altro c’è Monaldo. Il conte non evita di sminuire l’intelligenza dei Francesi. Questi sono dipinti come degli sciocchi, manipolabili come burattini, incapaci di vedere cosa è davvero accaduto con l’autoproclamazione di Bonaparte Imperatore.
Ma i Dialoghetti, oltre a fornire un’attenta e ironica analisi della psiche di Napoleone e dei comportamenti tenuti dalla Francia, sono fondamentali anche per poter capire il pensiero politico del conte nei confronti delle neonate Costituzioni.
Nel Dialogo Primo, Monaldo analizza la “carta” che fa “tanto romore”, (la costituzione concessa da Luigi XVIII nel 1814). E’ da sottolineare però che le prime lamentele verso le novità ‹‹democratiche›› si svelarono già con la Costituzione francese dell’anno III della Repubblica. Infatti in ‹‹quel contratto›› che ‹‹ha contraffatta e massacrata›› la Francia, Monaldo sottolinea come proprio nel preambolo, costituito dai Diritti e dei Doveri dell’uomo e del cittadino, veniva a delinearsi un concetto nuovo e molto importante: tutti gli uomini dovevano di necessità essere liberi, garantiti di una vita sicura e della possesso della legittima proprietà, ma soprattutto tutti dovevano risultare uguali senza ‹‹distinzione di nascita››.
Prevedibile e evidente il dissenso riguardo concetti come l’uguaglianza che, a detta sua, aveva rovinato tutto.
Gli uomini erano divisi in classi sociali non per volere del caso, o di ciò che la Rivoluzione aveva voluto definire ingiustizia, ma per volere del monarca, investito del suo potere da Dio.
In altri termini, Monaldo disapprovava decisamente l’idea che il popolo potesse sostituirsi al monarca e dichiararsi, per il tramite dello Stato, esso stesso Sovrano.
Il problema è però per Monaldo, per il “cavaliere antico”, che il popolo non si senta grato di aver ricevuto un dono dal monarca, ma creda di avere un contratto tra le mani: come possono i sudditi pensare di essere al pari del re? Come si può pensare che ci si trovi davanti a due parti contraenti di pari potere? La carta non era altro un regalo del re per il popolo.
E mentre per il mondo “la carta è una cosa tre volte buona, tre volte ammirabile, tre volte necessaria al riposo del mondo”, per Monaldo invece quella carta fa solo tanto, troppo rumore.
Conclusasi la prima invasione con la Pace di Tolentino, i francesi scesero in Italia una seconda volta, dando vita alla dominazione austro-francese dell’Italia settentrionale, con una sorta di spartizione dell’area padana e la nascita della Repubblica Cisalpina, che offriva a Napoleone, comunque, la possibilità di estendere verso sud la propria sfera di influenza, a partire dallo Stato Pontificio.
Non era, dunque, una fatalità l’invasione francese di Recanati.
Dopo poco un gruppo di controrivoluzionari riuscì a liberare Recanati. Facendo di Monaldo, contrario anche all’insurrezione contro i francesi, il governatore della città, ‹‹essendo ben noti oltre alla sua statura morale, anche il conservatorismo per lo status quo e la fiera avversione per la Rivoluzione Francese››. Ma al ritorno degli invasori ‹‹venne condannato a morte; l’esecuzione fu però evitata per intercessione del cognato, il marchese Carlo Antici››.
Toccato dall’evento, si tenne lontano dalla vita pubblica, e cercò di vivere appartato, lontano dalla politica e dall’amministrazione locale (anche se nell’Autobiografia dice di essersi occupato per vario tempo, dal 1801, dell’amministrazione dell’annona).
Conclusa la sua esperienza politica ed amministrativa, fra il 1800 ed il 1814 il conte preferì dedicarsi, dunque, quasi esclusivamente alla vita intellettuale locale ma sempre con un certo distacco, quasi volesse rifuggire dalla sua contemporaneità.
In quel periodo non si dedicò solo alla costruzione della sua famosa biblioteca, dove si sarebbe formato Giacomo, ma aprì un’Accademia poetica con l’intento di realizzare uno spazio intellettuale in grado di allontanarsi dalla quotidianità e dalle preoccupazioni della politica attiva.
Monaldo e la Restaurazione
Tutto ciò che è stata la vita di Monaldo dal 1801, anno di interruzione dell’Autobiografia, al 30 aprile 1847, anno della sua morte, nel pubblico e nel privato, è affidato a ciò che si riesce a cogliere dagli altri suoi scritti.
Dopo la Restaurazione, Monaldo rientra a far parte della vita politica.
Svolge diversi incarichi pubblichi: consultore della Congregazione di Governo della provincia di Macerata, e podestà di Recanati sono due di questi.
Ma per quanto ci provasse era stato catapultato fuori dal suo mondo.
La sua battaglia fu lunga, travagliata e persa in partenza.
Combatté tutta la vita per rientrare nel mondo: si guardi al suo impegno nel diffondere il suo ultraconservatorismo contro le politiche e le propagande liberali. Bisogna far cenno a quell’insieme di ‹‹piccoli scritti›› che dal 1832 furono ospitati dal giornale La Voce della Ragione. Fondato e diretto, dopo l’inizio dei moti del 1831, dallo stesso Monaldo. Si trattava di un quindicinale, redatto a Recanati, ma stampato a Pesaro.
Tra le pagine della rivista il conte portò avanti la sua polemica antiprogressista. Il cui scopo era Proeliare Bella Domini (combattere le guerre di Dio), come recitava il sottotitolo della testata del giornale.
Monaldo cominciò quindi a tentare di colpire l’Italia e l’Europa con le sue idee conservatrici.
Questo perché a partire dal Congresso di Vienna, culla della Restaurazione, il conte sembrava aver perso fiducia in un ritorno all’Antico Regime. La Restaurazione per lui non era riuscita a rappresentare la realizzazione di ciò che da tempo sperava, ma si tramutò ben presto in una grande delusione.
Tutto ciò è chiaramente percepibile dalla lettura dei Dialoghetti.
“Ristaurare vuol dire accomodare le cose guastate”, aggiustare ciò che si era rotto, e perciò la Restaurazione dovrebbe essere “una persona di garbo” dice l’Europa, nel Dialogo primo, rivolgendosi alla Giustizia; ma questa le risponde che senza di lei “le cose guastate indoverosamente non si possono accomodare”.
La Francia sarebbe dovuta essere semplicemente smembrata:
una fetta di Francia, all’Inghilterra, un’altra alla Spagna, una per ciascheduna all’Austria, alla Prussia, alla Olanda, alla Baviera e al Piemonte, con alcuni baratti per mantenere la bilancia e soddisfare la Russia e la Svezia, tutto era accomodato.
E invece, contro Giustizia, le si è ridato un sovrano ed è nata ‹‹la porcheria della carta››.
Il viaggio di Pulcinella
Il Viaggio di Pulcinella è il testo in cui Monaldo rende ancora più espliciti i concetti che aveva già espresso in precedenza.
In questa sezione dei Dialoghetti, dal particolare sottotitolo “trattenimento scenico recitato al mondo di oggi per far ridere il mondo di domani”, Monaldo non scrive per essere compreso dai suoi contemporanei. Il suo obiettivo è farsi leggere da coloro che abiteranno il mondo in un ipotetico domani (che immagina di nuovo dominato dall’Antico Regime).
Nel dialogo Pulcinella aveva richiesto al proprio interlocutore, il Dottore, se fosse meglio il governo del popolo o del sovrano. A questa domanda gli viene risposto che il popolo non sbaglia mai.
Così i due abbandonano la propria terra per recarsi in Francia, fuori della schiavitù: finalmente si dirigono verso libertà della Costipazione (così viene definita nel Dialogo la Costituzione)
Dottore: Addio, terra della schiavitù, andiamo nei paesi della libertà.
Pulcinella: Addio, Napoli mio con tutti i tuoi maccaroni. Andiamo a empirci la panza con la costipazione.
le loro aspettative vengono presto deluse una volta giunti a destinazione:
Pulcinella: […] Vogliamo stabilirci nella terra della libertà, oppure bisognerà rassegnarsi e tornare a vivere alla meglio in un regno assoluto?
Dottore: Pulcinella mio questo di dare addietro è un passo troppo duro. Dopo che abbiamo sparlato tanto dei re e abbiamo fatto tante pazzie per ottenere la costituzione, chi ci vedrà tornare con le trombe nel sacco ci farà dietro le fischiate.
Insomma, dopo aver criticato e sviscerato tutto ciò che le Repubbliche, le Costituzioni, le Rivoluzioni avevano di sbagliato, decide di portare sulla scacchiera un nuovo schema di gioco: non fa avanzare direttamente i pezzi più forti, torri ed alfieri, Giustizia e Libertà, grandi potenze, per attaccare il Re, ma muove i pedoni, Pulcinella e il Dottore, gente del popolo, così da riuscire ad imbrigliare meglio, seppur più lentamente, gli scacchi avversari.
Daria di Stefano
Bibliografia:
- Monaldo Leopardi, Autobiografia e Dialoghetti, a c. di Alessandro Zaccuri, Oaks, Milano, 2018
- Il Monarca delle Indie: corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi, a c. di G. Pulce, Adelphi, Milano, 2017
- Giacomo Leopardi, Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone, Newton Compton, Roma, 2014
- Monaldo Leopardi, Manifesto di associazione in Monaldo Leopardi, La voce della Ragione, Recanati, 1832.
- Clemente VI, “Breve Dominus ac Redemptor”, 1773
- Carissimo Signor Padre: Lettere a Monaldo, Edizioni Osanna Venosa, Venosa, 1997
- Franco Ferrucci, Il formidabile deserto. Lettura di Giacomo Leopardi, Fazi, Roma, 1998
- Michele Ruggiano, Raccontare Leopardi: vita, pensiero, poesia, Franco Angeli, Milano, 2018
- Umberto Lombardo, Vite Parallele: Monaldo, Adelaide e Giacomo Leopardi, Polistampa, Firenze, 1998
- Emanuele Severino, In viaggio con leopardi: la partita sul destino dell’uomo, Rizzoli, Milano, 2015
- Dizionario biografico degli italiani, Treccani, online a http://www.treccani.it/enciclopedia/monaldo-leopardi_(Dizionario-Biografico)/
- Enciclopedia Treccani: vocabolario on line (http://www.treccani.it/vocabolario/reazionario/)
- Costituzione del 1795, Francia (http://www.dircost.unito.it/cs/docs/francia182.htm)
- Carta del 1814: (http://www.dircost.unito.it/cs/docs/download/francia4-6.doc)
- La Carta Octroyée (https://www.camminodiritto.it/articolosingolo.asp?indexpage=3948)