Stefano Sollima è figlio d’arte, non vanta una filmografia molto lunga pur avendo quasi cinquant’anni, ha un suo stile e una predilezione per gli argomenti da dibattito.
Sta girando la seconda stagione di “Gomorra – la serie” e “Suburra”: cosa ci aspettiamo da lui?
Romanzo criminale – la serie
Sul libro di De Cataldo si basò già un film imbottito di nomi d’oro, con Placido alla regia, dotato dell’enorme pregio di essere appunto basato su fonte scritta e firmata da uno competente in materia – si spera – in quanto magistrato che forse qualcuna ne ha vista.
Nel 2008 arriva Stefano Sollima a dirigere una serie. Il soggetto è lo stesso, sì, ma com’è possibile che questa volta, al contrario della prima, emerga vivo e sfaccettato?
Prendiamo solo il contesto, il palcoscenico: Roma degli anni ’70 è sia il formicaio luminoso dall’architettura calda del centro di giorno, sia l’austera e gelida geometria di biancori dell’Eur di sera, e non è né la città madre che tutti accoglie sorridente, né una Gotham City con un assassino ad ogni angolo. Be’, è solo un luogo. È il fattore umano a caratterizzarlo.
Fattore umano che mette in crisi, d’altronde: se le personalità interessanti sono anche quelle criminali, se la forza dell’ordine è troppo passionale per essere adatta al suo ruolo, se la femme fatale è una povera disperata… dov’è il ditino del regista che indica e sussurra “spettatore, ehi, devi tifare per lui”? Anzi, dov’è la moralina buonista che sa di amore e spaghetti di mammà? E se non c’è quella, dov’è la denuncia plateale al lupo cattivo di turno e l’eroe che naturalmente è tormentato interiormente ma non per questo è meno eroe?
Non diteci… che Sollima non taglia i ruoli con l’accetta? Che la sua serie è effettivamente romanzata, come dice il titolo, ma che forse ha per soggetto-guida la realtà, e dato che la realtà non ha colorature di nero e bianco nette il regista non ne vuole inserire? Che al contrario ridacchia al pensiero che il pubblico si renderà conto di amare persone tutt’altro che esemplari nel bene ideale o nel male seducente, ma magari un po’ vere?
Non diteci… che non è una fiction?!
ACAB – All Cops Are Bastards
A guardar bene, è l’unico vero film di Sollima. A guardare ancora meglio, è una pietra preziosa della cinematografia italiana, quindi: niente male, Stefano.
Ora, il dibattito è spinoso: con “ACAB” il regista non si preoccupa di iniziare o finire una storia, semplicemente estrae dalla vita di quattro “celerini” (cioè del reparto celere della polizia) qualche giorno un po’ più movimentato degli altri, forse, o forse no, per piazzarlo sullo schermo, fare un passetto indietro e chiedere: che dite?
C’è chi ha detto che Sollima neanche stavolta prende posizione, come fece per “Romanzo Criminale”. Non è vero. È stato detto che, anzi, giustifica quei bastardi che picchiano per hobby (ricordiamoci che a distanza di qualche mese sarebbe uscito “Diaz – Don’t clean up this blood”). Non è vero nemmeno questo.
Stefano Sollima dirige da un punto di vista. Conserva la sua capacità di non dare giudizi propri, ma di certo non toglie la parola ai suoi personaggi, e i personaggi che ha scelto sono, stavolta, i poliziotti. Gli cede il microfono e, insomma, chi rinuncerebbe a dire la sua, a raccontare di sé per farsi capire, a mostrare quanto l’umanità debole e la vita privata deformino la professionalità, a spiegare la sua verità, a chiedere perdono o anche solo a giustificarsi arrampicandosi sugli specchi?
No, essere persone infelici non vi scuserà, nel caso decidiate di pestare gratuitamente qualcuno che non ha la divisa come voi. E, al contrario, la società non vi concederà di essere giudicati per le sole vostre azioni, per quanto ligie e rette, ma sarete chiamati a rappresentare l’intera categoria.
Sollima, però, nel rendere con pulizia e rispetto la sporcizia e il degrado umano, vi concede di parlare, anche solo per dire che è difficile essere voi.
Gomorra: insomma, perché si acclama Stefano Sollima?
Non dilunghiamoci sul successo, sulle origini, sulla trama: ripeteremmo qualcosa di già detto. Chiediamoci piuttosto perché c’è Sollima tra i registi scelti per rendere ulteriormente giustizia al lavoro di Saviano.
In parte abbiamo già risposto, naturalmente: guardate i suoi lavori precedenti.
Stefano Sollima non è un “verista”, non gli va di ridursi a regista d’inchiesta e fabbricante di documentari su argomenti un po’ oscuri, né probabilmente sente propria la vocazione di menestrello racconta-favole.
È piuttosto un romanziere che in una storia racconta la concretezza. I mezzi che ad altri servono per narrare frutti dell’immaginazione, e quindi costruire dal nulla una vicenda che di per sé è lontana dalla realtà ma che si pone in continua lotta con l’assurdità per essere credibile e più vicina a te che guardi, sono gli stessi mezzi che invece Sollima utilizza al contrario: il cuore del suo lavoro è l’articolo di cronaca, la biografia, l’esperienza vissuta, fatti concreti e maleodoranti… ma lui li allontana; li riprende e gli dà uno stile; si preoccupa della fotografia per dargli toni decisi e quasi “onesti”; ispessisce la colonna sonora perché faccia da macchina del tempo e dello spazio, impadronendosi della memoria uditiva per creare “un’atmosfera”; al montaggio dà l’aria svogliata del vecchio che racconta con finta noncuranza storie incredibili del suo passato a un bambino che pende dalle sue labbra…
E infine, quando il racconto è concluso, chi ascoltava si riscuote nell’accorgersi che gli è stato presentato un fatto tangibile e che non gli è stata indicata un’opinione con cui confrontarsi: quel fatto, proprio nella sua tangibilità, è capace di parlare da sé.
Chiara Orefice