Julio Cortázar è stato, insieme a Borges, il più grande scrittore sudamericano di racconti fantastici. Di Rayuela, il suo capolavoro, abbiamo già parlato in un articolo precedente: oggi, pertanto, ci focalizzeremo sul suo modo – tutto peculiare – di indossare il genere del racconto.
Cosa è il racconto per Cortázar?
“Se non abbiamo una idea viva di ciò che è il racconto, avremo perso tempo, perché il racconto, in ultima istanza, si muove su quel piano dell’uomo dove la vita e l’espressione scritta di quella vita ingaggiano una lotta fraterna […], e il risultato di tale lotta è il racconto stesso, una sintesi vivente insieme e una vita sintetizzata […]”.
La citazione, tratta da un discorso di Cortázar per una conferenza tenuta a La Habana e pubblicato in Casa de las Américas nel novembre del 1962, condensa in maniera efficace ciò che l’autore intende per racconto.
In special modo bisognerebbe concentrarsi sul concetto della lotta fraterna.
Partendo dalla consapevolezza, prima intuitiva e poi filosofica, che la realtà si sviluppa secondo un processo dialettico di pesi e contrappesi, di reciproche influenze tra forze opposte, per Cortázar scrivere un buon racconto vuol dire essenzialmente cercare di imprimere sulla carta la lotta produttiva da esse ingaggiata.
Lotta che, poi, non si limita alla dimensione interna del racconto, ma naturalmente straripa al di fuori del suo spazio per investire anche quello del lettore:
“Uno scrittore argentino che ama molto la boxe mi diceva che, in quella lotta che si instaura tra un testo appassionante e il suo lettore, il romanzo vince sempre ai punti, mentre il racconto deve vincere knock out”.
Il knock out ha a che fare innanzitutto con l’incisività, l’essenzialità: se è vero che uno scrittore di racconti non ha come alleato il tempo allora tutto il suo talento – e una dose notevole di astuzie tecniche – devono essere concentrati in un spazio minimo, che sia fisico o temporale.
Raccontare e basta, senza troppe spiegazioni.
Tema, tensione e intensità
A questo punto occorre considerare i tre nuclei concettuali che Cortázar considera fondamentali per la stesura di un buon racconto.
Innanzitutto il tema, che non per forza deve essere stra-ordinario, fuori dalla dimensione ordinaria: si pensi, ad esempio, agli aneddoti miseramente quotidiani dei racconti della letteratura russa, da Puškin a Čechov.
Piuttosto, il tema dovrà essere eccezionale:
“L’eccezionalità risiede in una qualità paragonabile a quella della calamita; un buon tema attrae tutto un sistema di rapporti connessi, coagula nell’autore, e più tardi nel lettore, un’immensa quantità di concetti, intravisioni, sentimenti e perfino idee che galleggiano virtualmente nella sua memoria o nella sua sensibilità”.
Stabilito (o forse intuito) il tema, bisogna considerare come doverlo trattare. Partendo dal presupposto che “in letteratura non bastano le buone intenzioni”, e che è necessario catturare il lettore, sequestrarlo dalla sua realtà, Cortázar analizza i concetti di tensione e intensità.
“Ciò che chiamo intensità in un racconto consiste nell’eliminazione […] di tutti i riempitivi o le fasi di transizione che il romanzo pretende e addirittura esige”.
È, in altre parole, il concetto di cui si parlava sopra, che ruota intorno alla essenzialità dello spazio scenico e delle vicende del racconto.
Proprio sull’intensità si dovrebbe innestare quella irrequietezza nevrotica, quel sospetto imprecisato, quell’obbligo alla curiosità che tiene il lettore incollato alle pagine e lascia scorrere sotto i suoi occhi immagini e parole senza che se ne renda conto.
E il mondo fuori continua ad agitarsi, totalmente ignorato, tagliato fuori dalla lotta fraterna tra autore e lettore, di cui il racconto si fa intermediario e allo stesso tempo campo di battaglia.
Ciò che accade intorno perde valore per lo spazio di qualche minuto.
L’elemento fantastico
Julio Cortázar, per sua stessa ammissione, è sempre stato avido lettore e folle ammiratore di Edgar Allan Poe: ad appena nove anni, infatti, ne divorava di nascosto i racconti, e scriveva poesie a lui ispirate.
Sin da subito dunque egli mostra una predilezione per il fantastico, il surreale, l’inquietante che si insinua silenzioso negli spazi familiari della quotidianità.
In Bestiario, raccolta pubblicata nel 1951, ad intaccare fatalisticamente la realtà dei racconti interviene l’elemento fantastico. Esso non è spiegato, non è dispiegato: è inserito con naturalezza sconcertante nelle sue multiformi manifestazioni e, soprattutto, al di sopra di ogni logica.
Non avrebbe senso, soprattutto in queste sede, analizzare i singoli racconti e tentare di inquadrarli in considerazioni descrittive.
Ci sono corrispondenze, nella realtà, che non possono essere spiegate né devono essere giustificate. Che siano intuite, allora.
Come le storie dietro l’attimo di una fotografia.
Beatrice Morra