Sette album in studio, dieci complessivi, encefalogramma quasi piatto negli ultimi anni. La band inglese ha ancora qualcosa da dire o le cartucce sono state sparate da tempo?
Parola d’ordine: dimenticare.
Otto e nove giugno, duemilaquindici. Apparentemente nulla è successo e invece i Muse hanno sfornato il loro settimo album e festeggiano il trentasettesimo compleanno del frontman Matthew Bellamy in questa rigorosa linea temporale. Il problema è che, appunto, nulla è successo; o almeno noi vorremmo dimenticare ciò che non vale più la pena di ricordare.
Discutere dei ragazzi di Teignmouth è diventata cosa di una complessità immane: vuoi per lo zoccolo duro di fan dei Muse che continuano e continuerebbero a seguirli imperterriti, giustificando (quasi) tutte le loro scelte compositive; vuoi perché ormai parliamo di fenomeno massivo come pochi nell’ultimo decennio e, come tale, di sofferente recentismo e di isterismi; vuoi per una critica – spesso non settoriale – morbida con i loro lavori recenti per via dell’imponente séguito, vuoi perché qualche capolavoro in passato i Muse l’hanno veramente sfornato e allora tutto si tinge di giallo e diventa una di quelle battaglie che tanto vorresti evitare quando qualcuno tira fuori l’argomento al pub ed hai già finito due birre.
Purtroppo le ricorrenze sono già state ricordate, le birre non ci sono e tocca approfondire l’argomento.
Duri lo siamo già stati ma con Drones nelle orecchie, l’ultimo parto in casa Muse, non si può pretendere un atteggiamento del tutto diverso. Il punto è che se discutere della band è un’impresa, raccontare quest’album è un’epopea: perché non è nulla se non una copia di una copia di una copia di una copia. Arrivato in pompa magna tra vari discorsi di Bellamy – che con l’orecchio a posteriori sembrano più deliri – di un ritorno al passato o a concert hall più intime, da subito appare furbetto e desideroso di non essere dimenticato. Dietro l’abbandono di sonorità elettroniche − o meglio, tamarro-elettroniche − c’era la volontà di far contenti nuova e vecchia guardia, quelli che «c’è Madness in radio, alza il volume!» e chi saltava nei primi Duemila al ritmo del basso di Muscle Museum. Ed infatti ecco qui, rispettivamente, Mercy e Reapers: il singolazzo per le radio con tanto di tastierina melodica e falsetti nel primo caso e riffone di chitarra nel secondo.
Il tutto suona lontano, distante, freddo, senz’anima, di contentino, senza cuore qui e per far piacere lì. Il resto è realmente un riempitivo che scorre senza carattere dalla prima all’ultima traccia: in ordine sparso Psycho, Dead Inside, The Handler e via discorrendo con la lunghissima The Globalist che vorrebbe essere un progressive ben studiato ma che all’orecchio disincantato appare un collage raffazzonato ed anticlimatico. Tutto è creato per accontentare, plagio di proprie idee sin dal concetto alla base dell’album stesso, di chiara matrice ancora una volta Orwelliana: controllo, droni, un discorso già assorbito sei anni fa con The Resistance. Insomma, c’è veramente tutto il materiale possibile ed immaginabile per spuntare la sessione privata su Spotify all’ascolto, ovviamente per la vergogna.
Carattere ed epoche dei Muse, cosa è mancato e cosa c’era.
Drones è quindi, a mani basse, l’album peggiore dei Muse: a penalizzarlo in maniera atroce è la mancanza di contenuti e linee guida, elementi che, seppure commerciali e spesso discutibili, avevano caratterizzato le precedenti uscite dei tre britannici.
Showbiz era un ottimo esordio, solido, potente, incazzato, con un limpido tema di fondo − il controllo del danaro sulle velleità artistiche − e, probabilmente, il vero capolavoro del trio: perché genuino, capace di veicolarsi ad un preciso messaggio senza divenire barocco, pomposo. Barocco che guasta un po’ il palato dell’ascoltatore in Origin of Symmetry pur rimanendo lavoro pieno di energia e di maturità non solo nella creazione di suoni ma nella loro gestione.
Da Absolution, album di transizione tra vecchie e nuove filosofie, si apre una nuova era per i Muse: sperimentazioni elettroniche − continuate in Black Holes and Revelations e portate all’estremo dubstep in The 2nd Law − e sistemi politici Orwelliani con suite orchestrali in The Resistance: il punto non è osservare il cambiamento di sonorità ed influenze − che indubbiamente esiste ed è tangibile ma resta sottoposto al personale gusto di ognuno − bensì discernere sulla presenza di un approccio di fondo che è diverso ma esistente in sei studio album. In Drones al contrario i Muse si guardano allo specchio e vedono un’anima divisa tra il periodo giovanile progressive rock ed il periodo adulto caratterizzato da modalità sonore più orecchiabili. A farne la spesa è, dunque, un prodotto che rivela la sua anima bifronte, non riuscendo ad eccellere nell’uno e nell’altro senso, rimanendo sospeso in un’aria di fasti passati, cavalcate già sentite e mostrando il cuore di un gruppo che si guarda alle spalle riscoprendosi estraneo a se stesso.
Alfredo Amedeo Savy