Nick Drake, folksinger unico nel suo genere, è stato riscoperto in tempi recenti per il suo tocco sulla chitarra e la tensione letteraria dei suoi testi.
A molti è noto come Erostrato, un pastore di Efeso, incendiò il tempio di Artemide, tra le sette meraviglie del mondo antico, nel tentativo di eternare il proprio nome. E quest’ultimo, pur legato ad un’azione funesta, nonostante il decreto dei suoi concittadini che ne proibiva la ripetizione, è giunto fino a noi intatto, con le implicazioni antropologiche e sociologiche che ne conseguono.
Vi è chi nella fama (buona o cattiva che sia), per l’eco di essa che giunge fino ai posteri, scorge un elisir d’immortalità; Nick Drake (1948 – 1974), invece, voleva semplicemente essere riconosciuto in vita. L’incomprensione ordì la sua condanna a morte, ma la sua graduale riscoperta non ne ha ordito la resurrezione: è stata, piuttosto, il pagamento di un vecchio debito nei confronti di un folksinger che seguì, con un’innovazione senza precedenti, la partitura dei propri affetti, adagiandovi liriche dalla straordinaria potenza espressiva.
La “rivoluzione copernicana” della chitarra folk
La chitarra di Nick Drake, il più delle volte, non era accordata normalmente. Un’informazione, questa, che può apparire indifferente agli ascoltatori non musicisti, così come agli eruditi, i quali obietteranno che la scordatura era assolutamente tipica nel folk britannico degli anni Sessanta (si vedano Davey Graham, Bert Jansch, Roy Harper).
Il suggello della musica di Nick Drake, tuttavia, consisteva non soltanto nella natura assolutamente inusuale di quelle accordature, talvolta non identificabili con alcuno standard (inventate dunque di sana pianta!), ma soprattutto nel modo in cui esse si adeguavano ai brani, essendo per ognuno di essi concepite. Non dunque il brano che s’adatta all’accordatura, ma l’accordatura che s’adatta al brano: in tale rovesciamento delle convenzioni risiede la vera novità sonora del cantautore, ancor oggi gravosa per schiere e schiere di chitarristi acustici.
Ad affiancare gli innumerevoli vantaggi di un’accordatura differente scelta in base al pezzo, gli arpeggi di Nick Drake conferivano ad una singola chitarra maggiore autorità di molteplici strumenti in armonia tra loro. Il suo etereo fingerstyle, anch’esso atipico in quanto scevro di qualsivoglia ripetitività ed estremamente curato e nella scelta delle note e nell’intensità dei suoni, consentiva alla sua musica di raggiungere vette altrimenti irraggiungibili.
I testi di Nick Drake: una tranquilla inquietudine
Abbandonati gli studi di letteratura inglese a Cambridge, Nick Drake poté dedicarsi alla musica a tempo pieno; quella forte sensibilità letteraria, tuttavia, avrebbe lasciato un’orma indelebile sulla sua opera. Da River Man, contenuta nel suo LP di debutto Five Leaves Left (1969), emerge già il tema dell’inadeguatezza umana rispetto al creato, posto su uno scenario metafisico:
Betty ha detto di aver pregato oggi
che il cielo esplodesse,
o forse che rimanesse:
non era sicura.Perché quando pensava alla pioggia estiva,
rievocandola ancora alla sua mente,
perdeva il dolore
e restava di più.Andrò a trovare l’Uomo del Fiume,
andrò a dirgli tutto quello che posso
sul divieto
di sentirsi liberi.Se lui mi dice tutto quello che sa
sul modo in cui scorre il suo fiume,
non immagino
sia destinato a me.
Se l’ispirazione per il personaggio di Betty risiede nella Betty Foy del poemetto Il ragazzo idiota di Wordsworth, certo è che oltre al nome non ne è rimasto nulla. A sottolineare per antitesi il significato dell’insicurezza di Betty è proprio la figura individuale di Nick Drake: in quell’eterno scorrere, quel panta rei disposto dall’Uomo del Fiume (Dio?), egli non si riflette fino in fondo; il mondo non è concepito a misura d’uomo, eppure l’uomo stesso finisce per adeguarvisi.
La tensione testuale è sorretta da quattro peculiari accordi che, reiterandosi ciclicamente in 5/4, sembrano quasi sottolineare il lento fluire delle quattro stagioni.
Ma Nick Drake nei suoi testi è anzitutto, per l’oppressione esercitata dalla sua condizione psicologica (conseguenza del suo insuccesso nello show business), elegiaco, cantore di una malinconia mai totalmente oscura, bensì attraversata da armoniosi barlumi di luce.
Influenzato dai Romantici inglesi, immagina le stelle per dimenticare la propria umana natura; ma è ad essa che ritorna, ed è con essa che si confronta. Così, in Place to Be (da Pink Moon, 1972), s’instaura un leopardiano contrasto tra passato e presente, tra Vago e Vero:
Quando ero giovane, più giovane che mai,
non ho mai visto la verità pendere dalla porta:
e ora sono cresciuto, la vedo faccia a faccia;
e ora sono cresciuto, devo alzarmi e fare ordine.Ed ero verde, più verde della collina
dove crescevano i fiori e il sole continuava a splendere: (…)
ma ora sono più debole dell’azzurro più pallido;
oh, tanto debole in questo bisogno di te.
Alla luce della tormentata biografia del folksinger (che, lentamente logorato dal proprio “fallimento”, ufficialmente morì per un’overdose da antidepressivi; la duplice ipotesi di incidente o suicidio è a tutt’oggi oggetto di dibattito), è tentazione irresistibile leggere i suoi testi come anticipate lettere d’addio.
Tuttavia, come afferma Camus, «non v’è amore per la vita senza disperazione di vivere»: sebbene Nick Drake, all’inizio della sua breve carriera, avesse predetto con inquietante lungimiranza la sua fama postuma («Dimenticato mentre sei qui, / ricordato per un po’», cantava in Fruit Tree), egli cercò spasmodicamente, tentando di vivere appieno, la protezione nell’approvazione generale, senza che la sua naturalezza si diradasse. «Il grembo di una notte eterna» l’ha infine accolto, lasciando a noi il più arduo compito di apprezzarlo.
Pierluigi Patavini