È da ormai una settimana che l’attenzione dei media internazionali è concentrata sulla crisi greca e sui pericolosi effetti di un eventuale default sull’economia dell’intero continente europeo.
Il Fondo Monetario Internazionale ( FMI ) con le sue soluzione neoliberiste e le agenzie internazionali di rating con i loro proclami aggravano poi ulteriormente la situazione; questi ultimi, protagonisti dello spettacolo del capitalismo globale, non godono di buona fama e come vedremo questa cattiva fama sembra essere, quantomeno per i paesi in condizioni di crisi, giustificata.
La promessa asiatica
Prima del 2 Luglio del 1997, la regione Asia-Pacifico era con ragione considerata l’esempio più riuscito di sviluppo economico e modernizzazione tecnologica della seconda metà del XX secolo.
Con un PNL che cresceva a ritmi più che doppi rispetto al PNL mondiale e una quota di reddito mondiale salita dal 19 al 33% in circa 50 anni, la regione Asia-Pacifico, divenne negli ultimi anni ’90, il principale centro di accumulazione di capitale sul pianeta, il più grande produttore manifatturiero, la regione commerciale più competitiva e il mercato a più alta crescita; attirando verso se stessa somme ingenti di investimenti esteri ( c.a. 420 miliardi di dollari ).
Ma nel giro di pochi mesi, tra il 1997 e il 1998, intere economie collassarono […] e altre caddero in recessione.
Com’era stato possibile?
Un’economia a cui sono state tarpate le ali
Nel 1996 la regione presentava un saldo positivo di 110 miliardi di dollari, tramutatosi in appena due anni in un saldo negativo di 50 miliardi di dollari e così le economie più fiorenti e promettenti del mondo crollarono come un castello di carte.
Il 2 Luglio 1997 il baht thailandese venne svalutato, trascinando con se la maggior parte delle monete della regione, impedendo in questo modo alle banche locali “di ripagare il debito a breve contratto con i prestatori esteri”.
È in questo momento che intervennero il FMI e le agenzie di rating.
“Il problema centrale era la perdita di credibilità di una data moneta agli occhi degli investitori, era indispensabile ristabilire la fiducia in essa” ma il Fondo, in maniera irresponsabile, continuò ad emanare dichiarazioni allarmiste, amplificando “Il panico finanziario”.
A tutto ciò si aggiunse il declassamento del debito dei paesi in crisi, da parte delle agenzie di rating private, declassamento che coinvolse – per la sovereign ceiling doctrine – tutte le società finanziare ed imprese operanti nei paesi declassati.
Il FMI impose inoltre ai governi asiatici in crisi, di alzare il tasso d’interesse a difesa del cambio, “finendo così per paralizzare le economie per il prosciugamento delle fonti di capitale”.
Causando un ribassamento ulteriore delle valute e il fallimento di migliaia di aziende locali, fino ad arrivare alla deindustrializzazione indonesiana e alla bancarotta sudcoreana.
Deve far riflettere in quest’ultimo caso l’obbligo di cessione della propria sovranità economica al FMI, da parte della Corea del Sud, in cambio di un prestito di 58 miliardi di dollari e la susseguente imposizione di misure di forte austerity che “fecero entrare in recessione gran parte delle economie del Pacifico asiatico”.
Il Fondo Monetario Internazionale: salvatore o speculatore?
Le operazioni condotte dal FMI, come appare chiaro, non miravano al salvataggio delle economie coinvolte nella crisi asiatica, ma unicamente alla copertura dei prestiti, garantendo ai creditori internazionali condizioni di recupero di capitali assai vantaggiose e redditizie.
Oltre a ciò, il fallimento delle imprese locali si trasformò in una ghiotta opportunità per le imprese straniere – in particolare americane ed europee – che poterono finalmente penetrare il guscio del sistema finanziario dei paesi asiatici attraverso acquisizioni e joint venture a condizioni estremamente favorevoli
Si potrebbe affermare quindi che il FMI e le agenzie di rating abbiano fatto, più o meno consapevolmente, il gioco degli speculatori e l’interesse unico delle grandi concentrazioni economiche.
Le stesse che videro nel mercato asiatico una facile opportunità di profitto.
Gli investitori stranieri ottenevano rendimenti assai più alti che negli Stati Uniti o negli stati europei, e senza dover rispondere di nulla a nessuno.
Le stesse che furono pronte ad abbandonare la barca ai primi segni di cedimento e per di più portandosi via le scialuppe di salvataggio, abbandonando l’equipaggio sui ponti ad affogare.
Mario Sanseverino