Il “Compiacimi!” è una delle celebri dinamiche dell’Analisi Transazionale di Eric Berne, psicologo canadese che ha introdotto un nuovo approccio per la comprensione delle relazioni e degli scambi comunicativi.
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Eric Berne e la dinamica del compiacimento
La dinamica del compiacimento in Eric Berne consiste in un imperativo perentorio, che l’Analisi Transazionale definisce spinta od ordine, come indica la stessa espressione “Compiacimi!”. Questo comando non viene espresso direttamente, ma rappresenta il compendio di un insieme di messaggi, espliciti ed impliciti, che il bambino può ricevere dai genitori o dalle figure educative rilevanti, tra i 3 e i 5 anni di vita. È questo il periodo in cui si struttura e si cristallizza la personalità dell’individuo, quindi, se la dinamica del compiacimento si istaura, rischia poi di essere assimilata e perpetuata come schema stereotipo per tutta l’intera esistenza.
“Compiacimi!” Il ricatto del se in Eric Berne
Ecco come avviene una classica dinamica di compiacimento. In pratica a causa dell’incapacità di educare, genitori e figure rilevanti non trasmettono al bambino che è amato e riconosciuto di per sé stesso, incondizionatamente. Al contrario, gli comunicano, consapevolmente o meno, che sarà accettato se – nella misura in cui – li compiacerà. Ovvero, rinunciando a sé stesso, ad esprimere il proprio sentire, le proprie emozioni e gusti, per assecondare le figure di riferimento e ricevere in cambio riconoscimento vitale. Per questo l’Analisi Transazionale parla di racket, ricatto appunto, perché il nutrimento affettivo viene elargito alla condizione di rinunciare a sé stessi.
Riportiamo un’eloquente testimonianza che può aiutare ad inquadrare la questione molto più di descrizioni teoriche:
È il caso di Carla, con un matrimonio costantemente nel limbo, impegnata da una parte a costruirsi una nuova famiglia con il proprio partner ma di fatto impossibilitata a farlo perché occupata a rispondere ai riferimenti esistenziali e comportamentali della famiglia di origine che interferivano nella ricerca libera delle dinamiche da rimettere in gioco insieme al marito. Durante un percorso di counseling emerge l’arcano: il “Rispetto i miei perché non mi hanno fatto mai mancare niente, mi vogliono e mi hanno sempre voluto bene…” viene stravolto da una piccola aggiunta che cambia tutta l’ambientazione: “… certo, se ero come loro mi volevano e tenevo alto l’onore della famiglia[1]”.
Ecco l’emergere del “Compiacimi!”: un riconoscimento condizionato dal compiacere viene assunto come schema comportamentale:
Carla scopre che anche in altri ambiti e ambienti fa di tutto per compiacere gli altri, rinunciando ad essere se stessa, esprimere le proprie idee, comportarsi liberamente e verificare la realizzabilità dei propri sogni[2].
“Compiacimi!” ed esistenza cristiana
La dinamica del compiacimento, una volta assunta, si manifesta in ogni ambito esistenziale, per questo neanche la fede, nella sua componente umana, può esserne immune.
Anzi, il “Compiacimi!” sembra proprio attecchire perfettamente in un contesto in cui la potenza liberante del Vangelo viene oscurata dal moralismo, dal doverismo e dal volontarismo. Lasciamo ancora che parlino i testimoni diretti:
Ciclo di incontri all’Università della Terza Età, poco prima che si riconvertisse alla più ridondante ‘Università delle Tre Età’. Siamo ad un corso dal titolo “Religione e Fede, con una decina di arzille nonnine. Il percorso inizia con una rilettura emotiva della propria esperienza religiosa. Una serie di interventi a osannare i valori che erano stati loro trasmessi e che ognuna aveva posto a fondamento della propria vita e del proprio annuncio a figli e nipoti. Solo una, la coordinatrice del Corso, non si era unita al coro e restava in disparte, dando l’idea di caricarsi di conflitto e tensione a ogni intervento delle colleghe. E alla fine è toccato anche a lei; gelida: “Io, se devo pensare alla mia formazione religiosa, posso solo dire che mi ha privato, da ragazza, delle cose che amavo di più…”.
Un secondo solo di imbarazzo generale poi, una volta sdoganata la critica, è stato un fiume: chi per il divieto del ballo, chi per l’ostracismo verso i rapporti con l’altro sesso, chi per le maniche corte in pieno agosto, ognuna ha ricordato il disagio tra il proprio desiderio di vita e le ferree regole dettate nelle parrocchie o nella scuola delle monache[3].
Questa testimonianza solleva una questione di estrema importanza: è la morale stessa, con la sua esigenza etica che si esprime nella forma del dover essere o fare, a postulare un irresolubile conflitto tra la propria personale felicità e l’istanza da adempiere?
In altre parole, l’esistenza cristiana è veramente riducibile ad un insieme di obblighi e divieti da sposare, oppure c’è di più?
Gesù di Nazareth oltre il “Compiacimi!”
Avendo identificato la dinamica del compiacimento come un’abdicazione a sé stessi, alla propria felicità, per ottemperare a delle richieste, a degli obblighi, possiamo trarre delle conclusioni.
È innegabile sostenere che l’intera sfera della morale e la stessa relazione con Dio possono cadere in questo tranello, soprattutto nel caso di un super io ipertrofico, oppure di una falsa immagine di Dio come giudice spietato, propugnata fin dall’infanzia.
Altrettanto innegabile, come ricorda il risentimento dell’anziana signora, è che l’educazione dei tempi che furono, religiosa e non, non eccelleva in delicatezza e che spesso si serviva di Dio e della religione, strumentalizzandoli, per rafforzare i propri imperativi e rivestirli di un’ulteriore sacralità.
Ma, detto questo, sarebbe un grave errore voler liquidare la morale cristiana perché schiavizzante o incline ad essere snaturata da dinamiche come ad esempio il “Compiacimi!”.
A guardar bene, al di là di pregiudizi secolari o di letture fuorvianti, i Vangeli sono pieni di pagine in cui Gesù di Nazareth, usando il linguaggio dell’Analisi Transazionale, spezza le dinamiche del compiacimento.
Sono molte infatti, le figure che compaiono nei Vangeli prigioniere del ricatto messo in atto dal “Compiacimi!”. Celebre ad esempio, è la parabola del figliol prodigo o del padre misericordioso, in Lc 15, 11-32. Ne emerge, da parte del fratello maggiore, un’esistenza vissuta nella frustrazione e nel risentimento. Un sacrificio di sé al fine di condurre una vita religiosamente buona, naturalmente all’apparenza.
Contrariamente ad una visione moralistica del cristianesimo, Gesù disconferma apertamente questa prassi e la stigmatizza come inutile, alienante e controproducente.
La predicazione e la vita di Gesù di Nazareth si mostrano decisamente su un altro livello rispetto alla logica funzionalistica del “Compiacimi!”. Essa infatti, segue l’ordine del “do ut des”: rinunciare a sé stessi in cambio di approvazione, in questo caso religiosa.
Al contrario, è sempre il fascino della sua persona, lo sguardo del suo volto come promessa di libertà e di pienezza ad attrarre e non l’insistere su leggi o precetti. La morale diventa così la gioiosa risposta al dono ricevuto, l’autobbligazione al bene sperimentato. Ancor meglio, vediamo come Gesù inviti espressamente a superare un’ottica legalistica per ricondurre la morale al suo senso più vero: vivificare l’uomo nelle sue relazioni vitali, quella con sé stesso, con Dio e con gli altri, realizzandolo interamente.
Christian Sabbatini
Fonti
Immagine in evidenza: disordineordinato.myblog.it
Immagini media: www.itap.at, www.studiopaladino.com, www.oneonta.edu , www.trasgressione.net
Bibliografia:
[1] G. Varagona – E. Lampacrescia, Compiacimi. Dal copione di vita al copione religioso (o viceversa), in Sacramentaria e Scienze Religiose, Errebi Grafiche Ripesi, Falconara Marittima (AN) 2009 ( Quaderni semestrali dell’Istituto Teologico Marchigiano, 31), 203. [2] Ibid. [3] Ibid. , 200
Sitografia:
Sito ufficiale di Eric Berne.