Tilda Swinton nasce nel 1960, il 5 Novembre. Venuta al mondo dunque sotto il segno della Congiura delle Polveri, dà seguito alla coincidenza studiando quello che in Italia chiameremmo “Scienze Politiche” e rimanendo un’attiva sostenitrice del Partito Comunista, per lo meno fino ai suoi vent’anni. Non che questo implichi qualcosa a proposito della qualità della sua recitazione, ma in qualche modo si addice così bene alla sua figura di artista insolita e ribelle che valeva la pena ricordarlo.
Jarman, androginia e stile
Debuttò come scoperta di Derek Jarman in “Caravaggio” (1986), e rimase la sua musa fino alla morte del regista stesso, partecipando non solo a moltissimi dei suoi film (citiamo solo “War Requiem” – 1989; e “Edoardo II” – 1991), ma anche al vero e proprio testamento che egli lasciò con “Blue” (1993). Fu un periodo indubbiamente significativo per la Swinton, che esercitò il suo gusto per la sperimentazione e lo “strano”; per le pellicole composte di idee lentamente esposte, quasi solo lasciate cadere per essere raccolte; per l’estetica perfino barocca, tra innesti ed elementi di disturbo.
Già nel 1992 era uscito “Orlando” (Sally Potter) che aveva contribuito ancora più di Jarman a fare di Tilda Swinton l’icona dello “strano”: interpreta infatti Orlando, un uomo, che obbedisce all’ordine della regina d’Inghilterra di rimanere per sempre giovane e che, dopo un paio di secoli, cambia sesso. Tutt’oggi Tilda continua a giocare con il suo ruolo di mestra dell’androginia, tanto da aver destabilizzato tutti, tra pubblico e critica, quando si è mostrata nel suo ultimo film (“Un disastro di ragazza” di Judd Apatow – 2015) completamente truccata e con i capelli lunghi, decentemente acconciati.
Oltre allo choc di vederle il fondotinta spalmato sugli zigomi, potrebbe dare da pensare il contrasto tra uno qualunque dei titoli citati fino ad ora e “Un disastro di ragazza”. Sì, ecco un’altra forma di anticonformismo (o scelta assolutamente allegra e spensierata della meta del proprio talento; o mostra di sé come attrice “che si può permettere” certe cadute di stile) di Tilda Swinton: dedicarsi a pellicole autoriali e sperimentali, come dire, “snob”, e contemporaneamente a prodotti che di certo una selezione del target non la fanno.
Diverse Tilda Swinton
…e sempre la stessa
Se almeno si degnasse di essere un’attrice pessima in quei film mainstream in cui accetta di recitare, potremmo avere qualcosa da rimproverarle. Ma prendiamo ad esempio “Le Cronache di Narnia – Il leone, la strega e l’armadio” (Andrew Adamson – 2005): la strega bianca di Lewis sembra aver messo un piede fuori dalle pagine ed essersi tirata su per concedersi alla macchina da presa. Alta come un uomo, ossuta, pallida, quasi senza labbra e senza ciglia: uno spettacolo per gli occhi, come la sua voce dura e appena tremante nelle note alte è un’esperienza da far provare alle orecchie.
Multiforme pur conservando il suo carattere di donna atipica, ammiccante da qualche ruga o da un battito di ciglia, è di quelle attrici a cui i registi si permettono di dare qualunque ruolo. Se i fratelli Coen le porgono un tailleur e le danno un carattere cagnesco nella sua rabbia e robotica nella sua efficienza rapida ed esigente in “Burn after reading – a prova di spia” (2008), Bong Joon-ho invece le mette sul naso un paio di occhiali doppi come un fondo di bicchiere e la trasforma in una vigliacca e viscida serva della tirannia sul treno di “Snowpiercer” (2013).
Se in “The Zero Theorem” (2013) Terry Gilliam la rende intelligenza artificiale di un mondo distopico, Jim Jarmush la vuole elegante e triste custode della bellezza prodotta nel passato dall’uomo in “Solo gli amanti sopravvivono” (2013).
Proviamo a concludere citando un’altra collaborazione straordinaria: quella tra Tilda Swinton e Wes Anderson. Non c’è dubbio che l’approccio di quest’ultimo sia diverso da tutti gli altri: l’aura magica e fredda che avvolge la Swinton si infrange, per l’apparente delizia di entrambi, contro le atmosfere coloratissime e cartoonesche di Anderson. Chi avrebbe mai osato posare quel volto da regina delle nevi nel delizioso “Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore” (2012) fatto di fari, spiagge e costumi colorati? Chi ne avrebbe fatto il centro delle caratteristiche inquadrature simmetriche, con indosso cappello e cappotto in tinta unita, severo e ridicolo al tempo stesso? E chi, due anni dopo, l’avrebbe trasformata in una vecchissima signora, morta in modo un po’ scomposto in “Gran Budapest Hotel” (2014)? Be’, Wes Anderson.
C’è chi si lancia nell’ispirazione che la figura bianca di Tilda Swinton dona alle menti, e c’è chi invece pare volerla mettere alla prova nel trasformare le sue forme quasi aliene in materia umana quotidiana.
Forse nessuno riesce mai nel proprio intento, e il risultato rimane per tutti sconosciuto in partenza: salta poi fuori, alla fine, come un impasto di sceneggiatura, interazioni imprevedibili, e personali apporti di una sempre divertita, irriverente, “strana” Tilda Swinton.
Chiara Orefice