L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters colpisce la poesia americana col suo realismo psicologico, che desta attenzione anche in Italia.
Un paesaggio cimiteriale costellato di nomi ignoti non è soltanto memento mori per il viandante; ne stimola invece la curiosità, inducendolo istintivamente ad interrogarsi sulla totalità delle vicende legate a quegli stessi nomi. Ognuno ne è a suo modo cosciente: la morte può annichilire la carne di un uomo, non la sua storia.
Alla vista del cimitero di Stoke Poges, il poeta inglese Thomas Gray ipotizzava la presenza tra i sepolti di «qualche spirito una volta gravido di ardore celestiale», «qualche Hampden di villaggio… qualche muto e ignoto Milton… qualche Cromwell senza colpa per il sangue del suo paese» [1]. A distanza di meno di due secoli (1915), Edgar Lee Masters sfoggiò la medesima sensibilità nel tracciare il profilo dei cittadini defunti di Spoon River, immaginaria cittadina americana: ormai strappati alla vita, essi si confessano, disvelando l’unicità drammatica insita in ogni vita umana.
«Tutti, tutti, ora dormono sulla collina»
… Torniamo a ripetere, caso mai ce ne fossimo scordati, che questo volume di liriche fa racconto, fa dramma. E questa è, per noi letterati, la sua attualità più scottante. [2]
Uomini comuni, perciò, quelli sepolti nel cimitero di Spoon River, appartenenti principalmente alla piccola borghesia dell’America rurale primonovecentesca. Eppure non è soltanto la grande attenzione sociale a destinare l’Antologia di Spoon River al canone letterario occidentale.
La penna di Lee Masters, portavoce dei defunti, stende difatti in versi grezzi, senza musicalità né prosodia alcuna, brevi epigrafi in prima persona: il fascino dei fatti narrati, paradossalmente degni di nota nella loro ordinarietà, prolifica esponenzialmente in un contesto in cui, piuttosto che la raffinatezza, viene favorita la spontaneità più immediata.
Se non nel fisiologico protagonismo “letterario” dei personaggi, l’Antologia non è inoltre inno all’individualismo: l’onnipresenza della morte in quanto iudex, così come l’intreccio intratestuale di alcune storie, sottolineano dell’opera un vero e proprio impianto corale, costituito da un’armonia a più voci in cui non v’è mai alcuna dissonanza, e in cui soprattutto si cela l’ideologia di Lee Masters, anzitutto libertario e schierato contro ogni forma di oppressione. Ne è esempio l’epitaffio di Herman Altman:
Ho forse seguito la Verità dovunque mi guidasse
e mi son messo contro il mondo intero
in nome di una causa,
e sostenuto il debole contro il potente?
Se l’ho veramente fatto
allora vorrei essere ricordato tra gli uomini
così come fui conosciuto in vita tra la gente,
e come fui odiato e amato sulla terra,
di conseguenza, non costruitemi un monumento (…)
affinché la mia memoria non venga falsata ad uso
della menzogna e dell’oppressione. [3]
Tuttavia, un’analisi meramente “politica” dell’Antologia di Spoon River risulterebbe quanto mai sterile ed inappropriata. È l’assoluta focalizzazione sullo spettro delle umane sensazioni ad offrire peculiarità alla raccolta; sono le storie d’amore, di guerra, di gelosia. È Francis Turner, il malato di cuore, per il cui epitaffio uno straordinario pathos scenografico riesce a farsi strada tra versi scheletrici:
(…) c’è un boschetto di acacie,
catalpe e dolci pergole di viti –
là un pomeriggio di giugno
con Mary al mio fianco –
mentre la baciavo con l’anima sulle labbra,
l’anima volò via, all’improvviso. [4]
È soprattutto Jones il violinista, morto con «migliaia di ricordi / e non un solo rimpianto» [5], emblema di quell’umile libertà propugnata da Thoreau: una figura cara a Fabrizio De Andrè che, come vedremo nel prossimo paragrafo, farà sua.
Antologia di Spoon River in Italia: censure e cantautorato
Fernanda Pivano, tra i maggiori americanisti del secolo scorso, giunse a contatto con l’Antologia nella sua adolescenza, mediante Cesare Pavese. Di lì, l’immediato colpo di fulmine e la traduzione inizialmente all’insaputa di Pavese stesso che, venutone a conoscenza, spinse l’Einaudi, nel 1943, alla pubblicazione del libro, eludendo i controlli dell’allora vigente Ministro della Cultura Popolare. La Pivano scontò in carcere un affronto tanto spregiudicato al veto fascista nei confronti del libertarismo; un’esperienza, questa, che avrebbe sempre rivendicato con fierezza.
Sarebbe stata ancora lei, successivamente, a riconoscere a De Andrè il merito di aver sovrastato persino lo stesso Lee Masters nel suo adattamento in musica di nove poesie dell’Antologia, risultato nell’LP Non al denaro, non all’amore, né al cielo (1971).
In un’opera sospesa tra affinamento metrico e attualizzazione a tutti gli effetti (tanto da accostare il personaggio di Dippold, l’ottico, a miti della controcultura come Leary o Huxley mediante un arrangiamento lisergico) nonché con un preciso concept di fondo, Il suonatore Jones appare come il brano più intimo e defilato, e al contempo più riuscito.
Jones, imperturbabile e privo di responsabilità, suona fino all’ultimo dei suoi giorni, godendo delle proprie melodie. In quelle stesse melodie, De Andrè, da musicista anch’egli, scorge la radice più profonda della libertà del suonatore, ponendo arbitrariamente su di essa l’accento («Libertà, l’ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato»). Riserviamo la chiusa alle sue parole:
Per Jones la musica non è un mestiere, è un’alternativa: ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà. E in questo momento non so dirti se non finirò prima o poi per seguire il suo esempio. [6]
Pierluigi Patavini
Fonti
[1] Thomas Gray, Elegia scritta in un cimitero campestre, traduzione personale
[2] Cesare Pavese su Il Saggiatore, agosto 1943
[3] Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, traduzione di Antonio Porta
[4] ibidem
[5] ibidem
[6] Fabrizio De Andrè intervistato da Fernanda Pivano nel 1971, dalle note di copertina dell’LP