In ambito fotografico ciò che noi chiamiamo negativo non ha necessariamente una sfumatura dispregiativa, anzi.
Il negativo, altro antenato fondamentale del digitale insieme al dagherrotipo, non è altro che un’immagine che presenta un’inversione dei chiaroscuri rispetto al soggetto.
Distinguendo le parti luminose (dette luci) dalle parti negative (dette ombre) esse assumeranno luce opposta a quella che avevano di base: le luci, quindi, saranno più o meno scure mentre le ombre quasi trasparenti.
Il positivo, al contrario, rispecchia i chiaroscuri (luci/ombre) ed è ottenuto tramite stampa del negativo stesso.
Un po’ di storia del negativo
Poco dopo la diffusione delle scoperte di Daguerre, altri studiosi ed esperti del campo scelsero di continuare le sue ricerche.
Tra questi presto si distinse William Fox Talbot che, immergendo un foglio in una miscela di sale e nitrato d’argento ed esponendolo poi alla luce, riuscì a riprodurre il primo negativo.
Per ottenere il suddetto negativo, quindi, Talbot si servì dapprima di un metodo denominato “sciadografia” (dall’inglese “shadowgraph”) che consisteva nel rendere sensibile alla luce un semplice foglio di carta da scrivere immergendolo in una soluzione chimica, per poi ricrearvi l’immagine desiderata. Non a caso, per motivi di praticità, il primo negativo realizzato da Talbot fu quello di una foglia caduta dà un albero.
In seguito, però, avendo inteso che il foglio era troppo sensibile agli agenti esterni, Talbot si dedicò allo studio del fissaggio, ovvero come stabilizzare l’immagine “bloccandola” su un foglio e rendendola immune alla luce.
La calotipia
Ma il metodo che rese questo studioso maggiormente celebre fu un altro: la calotipia, ribattezzata dal suo nome “talbotipia”.
Questa nuova frontiera della fotografia ebbe una partenza un po’ infelice, in quanto, essendo stata presentata alla Royal Society inglese solo sette mesi dopo la rivelazione del dagherrotipo, ottenne meno successo del previsto.
La calotipia (dal greco “kalós”/”bello” e “typos”/”stampa”), basata sul riprodurre immagini con il metodo negativo/positivo, risultò un metodo ancor più laborioso dei precedenti che faceva perdere anche qualità ai dettagli dell’immagine.
Inoltre, unendo negativo e positivo, si ottenevano solo delle copie riproducibili e non più pezzi unici come invece erano i prodotti degli esperimenti di Daguerre.
Le fasi
Il processo della calotipia viene convenzionalmente diviso in sei fasi, anche se alcuni studiosi successivi tendono a variare questo numero.
La prima consiste nella scelta del supporto, ovvero della carta che abbia le qualità giuste per imprimervi l’immagine sopra.
La seconda, poi, consiste nella preparazione della suddetta carta così da essere idonea alla stampa tramite inceratura, iodurazione e sensibilizzazione della carta stessa.
Quindi si procede con l’esposizione alla luce (terza fase), durante la quale avviene lo sviluppo dell’immagine (quarta fase), fissata poi (quinta fase) nel momento in cui la carta non risente più dei cambiamenti luminosi.
Infine vi è la sesta e ultima fase consistente nella stampa dell’immagine che, come accennato in precedenza, è una copia riproducibile.y
Per quanto riguarda le apparecchiature, la cosiddetta “fotocamera” di Talbot era costituita da una scatola di legno con un obiettivo fisso in vetro ed ottone, parzialmente simile a quella di Daguerre e Niepce.
Nonostante gli scarsi successi a suo tempo degli studi di Talbot, l’uso del negativo e del suo corrispettivo positivo furono notevolmente importanti nel campo nella fotografia chimica, nonché nello sviluppo dei primi rullini fotografici.
Maria Francesca Celentano