In Come donna innamorata, tra i candidati del Premio Strega 2015, Marco Santagata propone un diverso ritratto di Dante focalizzato sull’interiorità.
Era crollato tutto, ma gli restava la Commedia. Da quando aveva realmente capito cosa fosse, quel poema a cui lavorava da anni gli appariva l’unica roccaforte solida in un mondo che andava in pezzi.
L’attualizzazione è un procedimento pregno di rischi: la materia dantesca, tra tante, è costretta a subirne regolarmente i contraccolpi. Col settecentocinquantesimo anniversario della nascita del Sommo Poeta, tra l’altro, si è assistito al proliferare d’ogni tipo di happening celebrativo, da rivalutazioni culturali genuine a mere operazioni commerciali.
Come donna innamorata, opera di Marco Santagata (tra i maggiori studiosi contemporanei di letteratura italiana medievale: sua è, ad esempio, l’edizione di riferimento del Canzoniere di Petrarca), riesce come sperimentale e sentito nella sua semplicità, distaccandosi dagli adempimenti d’occasione al monumentale culto di Dante.
Tra i candidati al Premio Strega 2015, il romanzo è difatti narrazione di svariate vicende della biografia dantesca che offre un accurato ritratto interiore del poeta in rapporto, in particolar modo, alle due figure che maggiormente esercitarono su di egli il proprio influsso.
Bice secondo Marco Santagata: lutto poetico
Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente… (Vita nova)
Bice Portinari è in punto di morte. La notizia che, l’8 giugno 1290, l’amico Lapo Gianni porge a Dante è certo destabilizzante. Beatrice, indiscussa protagonista dei versi che avevano diffuso il nome dell’Alighieri poeta a Firenze, la «gentilissima» la cui visione rendeva «onne cosa umile», attende placidamente di esalare il suo ultimo respiro. Più che drammaticamente sorpreso («Se lo aspettava», adduce il narratore), Dante è invece pervaso da una torpida sensazione di stasi. Come cantare le lodi di una donna che ha ormai abbandonato il mondo terreno? Quali «nove rime» stendere per lei?
E adesso, cosa avrebbe fatto il poeta di Beatrice? Udiva il rumore dei propri passi, e a ogni passo si chiedeva: «E adesso?».
La domanda martellava, ritmata dal pulsare delle tempie.
(…) Bice era un angelo, ma di questo mondo. Non poteva mica cantare la meraviglia d’una donna morta. Quante attese venivano sepolte con lei!
La risposta, come illuminazione improvvisa, non tarderà a giungere. Essa risiede in una magistrale messa a fuoco sulla fisicità del poeta, troppo spesso tralasciata: in una strana sintomatologia che sovente si ripropone a Dante, un tremore diffuso che si fa paralisi, non può esservi casualità.
Che si tratti di epilessia (come lo stesso Santagata peraltro sostiene) o altro non conta: Tana, sorella di Dante, è convinta che quel «male» sia nato con Beatrice, essendosi presentato per la prima volta al fratello all’età di nove mesi; alla nascita, cioè, della donna.
Altri nove anni, e i due si sarebbero effettivamente incontrati per la prima volta. Nove: quel numero ha in sé la Trinità. La natura di Bice ormai è chiara, e la donna-angelo non è più soltanto un espediente poetico. Dante, sentendosi graziato dal Signore, intende riparare scrivendo un libello, la Vita nova. Ma cosa ne penserebbe Guido Cavalcanti?
Guido, «primo amico»
Dante aveva conosciuto Guido, «il principe dei poeti in volgare», in giovinezza, mediante una risposta ad un suo sonetto. I semi di una grande amicizia, dopotutto, non potevano che essere fecondati dalla poesia. Ma le loro divergenze intellettuali cominciavano a diventare sempre più marcate. Con penna quasi ironica Santagata immagina un Dante entusiasta, di ritorno da Bologna, che intrattiene un dibattito con Guido sulla natura salvifica dell’amore:
«…l’amore, capisci?, è estasi. La poesia loda la bellezza del creato. Ti dico di più, amare un angelo in terra solleva l’anima in cielo. Credimi, l’amore può salvare».
(…) «L’amore, dico l’amore vero, annebbia il cervello. L’amore vero ti sfibra l’anima. L’amore vero» disse (Cavalcanti, ndr) scandendo le sillabe «è sofferenza».
La Vita nova, in cui Dante si pone implicitamente ad un livello superiore rispetto a Guido, provoca le prime fratture nel rapporto; a lacerarlo definitivamente è la politica, il meccanismo distruttivo che costringe Dante, nel ruolo di priore, a dover mandare all’esilio in Sarzana il suo stesso amico, che morirà pochi mesi dopo.
Nell’identificare uno dei capisaldi del suo romanzo in Guido, Santagata dimostra come il rimpianto, per l’esperienza dantesca, valga quanto l’amore.
E le tracce quell’eccentrico poeta della famiglia dei Cavalcanti saranno ugualmente disseminate nella Commedia: non soltanto in quel turbine d’emotività che è l’incontro col padre Cavalcante, ma nella stessa figura di Matelda, la donna edenica che, «cantando come donna innamorata», accompagna Dante al tanto agognato «incontro in un sogno» (Borges) con Beatrice.
Nel canto idilliaco di Matelda riecheggiano difatti soavemente i versi di Fresca rosa novella, tra le ballate più celebri di Guido. Santagata lo presenta non come pagamento di un debito, bensì come soluzione dettata dall’inconscio malinconicamente orientato verso la giovinezza di un poeta rimasto solo con la magnificenza perpetua delle proprie parole.
Fresca rosa novella,
piacente primavera,
per prata e per rivera
gaiamente cantando…
Pierluigi Patavini