Una delle tappe che un visitatore deve assolutamente fare una volta giunto a Napoli è la Cappella Sansevero. Testimonianza della creatività barocca napoletana nonché luogo avvolto da leggende e mistero, che ospita il meraviglioso Cristo Velato di Giuseppe Sammartino.
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La Cappella Sansevero
Il contesto urbanistico
Siamo nel cuore del centro storico della città partenopea, nei pressi della chiesa di San Domenico Maggiore, di Piazzetta Nilo e della chiesa di Sant’Angelo a Nilo. Quest’ultima ospita, tra l’altro, un’opera rinascimentale, il sepolcro del cardinale Rainaldo Brancaccio, testimonianza del passaggio di Donatello a Napoli. In uno di questi vicoli, precisamente in via Francesco de Sanctis, sorge la Cappella Sansevero (detta anche Santa Maria della Pietà), gioiello del patrimonio artistico internazionale.
Le origini leggendarie
Le sue origini sono legate ad una leggenda. Il cronista napoletano Cesare d’Engenio Caracciolo, all’interno della sua opera scritta nel 1623, Napoli Sacra, racconta che un uomo innocente, stava per essere trasportato in carcere quando, passando avanti Palazzo di Sangro, situato in piazza San Domenico Maggiore, crollò un muro di cinta. All’uomo apparve l’immagine della Madonna e a lei promise di donare una lampada d’argento e un’iscrizione qualora fosse stato riconosciuto innocente.
Naturalmente questa immagine sacra divenne meta di pellegrinaggio e nel 1590 il duca di Torremaggiore Giovanni Francesco di Sangro, in seguito ad una grazia ricevuta, decise di fare erigere una cappella. Nei primi anni del Seicento, però, suo figlio Alessandro di Sangro patriarca di Alessandria ampliò la cappella destinandola alla sepoltura degli antenati e dei futuri membri della famiglia.
La struttura
Del periodo seicentesco sono rimaste inalterate le dimensioni della cappella, un’unica navata a pianta longitudinale, la decorazione policroma dell’abside e le cappelle laterali, infatti, il suo attuale assetto e le opere che oggi ammiriamo risalgono alla metà del Settecento e sono frutto del mecenatismo di Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero.
Uomo d’armi, letterato, editore, primo Gran Maestro della Massoneria napoletana, egli fu, in primis, inventore e mecenate creando, così, un vero e proprio scrigno d’arte. Nei laboratori sotterranei del suo palazzo, che si trovava proprio accanto alla Cappella, sperimentava tutto ciò riguardava le scienze e le arti.
Alla sua morte fu scoperta una cavea sotterranea nella cappella, dove furono ritrovati gli scheletri di un uomo e una donna (con un feto in seguito trafugato), forse suoi servi, che presentavano l’intero sistema arterioso e alcuni organi. La leggenda vuole che, per conservare intatti i corpi, il principe-alchimista avesse iniettato un liquido di sua invenzione per solidificare gli apparati interni. In realtà, Raimondo fece realizzare questi due scheletri dal dottore Giuseppe Salerno ai quali poi avrebbe aggiunto il sistema cardiovascolare da lui stesso creato.
Si occupò della decorazione della cappella circondandosi di pittori e scultori rinomati, seguendo i lavori e scegliendo personalmente i materiali. L’idea era quella di un tempio maestoso, arricchito di opere di grandissimo pregio e degno della grandezza del casato. In questo modo vennero alla luce opere come la Pudicizia (1752) e il Decoro (1751-52) di Antonio Corradini, la Sincerità (1754-55) e il Disinganno (1753-54) di Francesco Queirolo.
Il Cristo velato di Sanmartino
L’opera più suggestiva non può che essere il Cristo velato che occupa la parte centrale della navata della Cappella di Sansevero. La statua doveva essere eseguita dal veneto Antonio Corradini, tuttavia egli morì nel 1752. Realizzò solo un bozzetto in terracotta, oggi conservato al Museo di San Martino. Per questo, il principe affidò la realizzazione del Cristo a Giuseppe Sanmartino, un giovane artista napoletano. Pagò l’opera con cinquanta ducati, come testimonia la ricevuta custodita dal Banco di Napoli.
Abbiamo davanti un materasso settecentesco sul quale è adagiato il corpo del Cristo morto e privo ormai di qualsiasi sofferenza; su due cuscini poggia il capo leggermente reclinato da un lato; il velo, le armi del supplizio sono posti ai suoi piedi. Il tutto è stato realizzato in un unico blocco di marmo. Sul volto e sul corpo sono visibili i segni del dolore, la vena ancora palpitante sulla fronte, le mani e i piedi forati dai chiodi, la ferita del costato e, sempre scolpiti in marmo, i chiodi e la corona di spine.
Ciò che realmente colpisce è il velo che offusca e non copre completamente il corpo. Il sudario trasparente, con le sue increspature, avvolge il Cristo dando un senso di morbidezza non richiamando minimamente la freddezza e la durezza del marmo. Prima di allora mai un velo era stato realizzato in questo modo, per di più da un giovane sconosciuto artista napoletano quale era il Sanmartino.
Proprio per questa “leggerezza” del velo una leggenda narra che Raimondo di Sangro avrebbe saputo marmorizzare un vero drappo in seguito a suoi esperimenti. In realtà questo non è altro che il frutto dell’abilità, della maestria, della sensibilità dello scalpello dell’artista che ha creato questo gioiello dell’arte napoletana.
Anna Cuomo