Il 31 Gennaio del 1964, la famosa rivista americana Life pubblicava un articolo dal titolo: “È lui il peggior artista degli Stati Uniti?” (Is He the worst artist in the U.S. ?). L’artista era Roy Lichtenstein, considerato tra i massimi e più rigorosi interpreti della Pop Art.
Roy Lichtenstein: gli inizi
Presentato come un tranquillo e affabile quarantenne che mai si sarebbe immaginato di diventare, nel giro di pochi anni dalla sua più importante mostra, una celebrità nel mondo dell’arte. Egli fu snobbato dai maggiori critici americani e da parte del pubblico (che rispondevano con un sonoro SI alla domanda) e al tempo stesso amato per il suo lavoro, ritenuto di forte impatto e di grande fascino.
La mostra che lanciò carriera di Roy Lichtenstein si tenne presso la Galleria di Leo Castelli, da febbraio a marzo del 1962.
Presentò i suoi primi spettacolari dipinti in stile Pop, come “The ring (Engangement)” (venduto tra l’altro, per una cifra intorno ai 40 milioni di dollari all’asta serale di Sotheby’s di maggio 2015), “The Kiss” o “BLAM”. Riuscì a ottenere un grande successo, tanto che fu venduto ogni singolo quadro. L’arte si tinge dei colori della cultura “bassa”, popolare, libera dalle angosce esistenziali dell’Espressionismo Astratto, trovando nuova linfa nelle forme della vita quotidiana.
Roy Lichtenstein nacque a Manhattan il 27 ottobre del 1923. Frequentò dei corsi estivi all’Art Students League di Ny, prima di iscriversi presso l’Università dell’Ohio, dove conseguì la laurea di primo e poi di secondo livello nel 1949.
Gli studi furono interrotti quando venne chiamato alle armi, durante la seconda guerra mondiale. Destinato dunque al fronte europeo, combatté in Inghilterra, Francia, Belgio e Germania, prima di fare ritorno in patria.
I suoi interessi, si orientarono quasi subito verso le novità delle avanguardie artistiche, preferendole agli insegnamenti più tradizionalisti dei suoi professori. Gli esordi avvennero sotto l’influenza del Cubismo e successivamente dell’Informale. Ma la sua formazione, risentì, anche in maniera preponderante, del gusto per la grafica pubblicitaria e per il disegno industriale, emergenti durante la sua svolta Pop, agli inizi degli anni sessanta, anche grazie al contatto con Andy Warhol.
Lo stile
Sulle tele egli raffigurò immagini di serie di fumetti (forma letteraria superstite nella società dei consumi americana degli anni Sessanta) e di prodotti comuni, ma anche materiali tratti da cartoline o depliant turistici, filtrati dal linguaggio popolare dei mass media. Il suo procedimento consisteva nel proiettare il disegno originale sulla tela fino a ingrandirlo alle dimensioni desiderate, generalmente fuori scala.
La scena della vignetta, estrapolata da tutto l’episodio, diventava così un momento clou della scena, un assoluto del discorso. A quel punto, egli ricalcava le linee di contorno ripassandole poi con colori a olio, o preferibilmente con il magna (particolare smalto acrilico diluito in trementina).
All’interno dei contorni vi erano sia campiture di colore, stese in modo piatto e uniforme (al fine di annullare qualsiasi effetto di chiaroscuro), sia l’ordinato accostamento di numerosissimi puntini, alla maniera dei processi di stampa tipografica, a colorare ad esempio il volto di un personaggio. Il retino regolare della stampa da rotocalco (processo Benday), sgranandosi mostra infatti la struttura interna dell’immagine, fatta di tanti cerchietti colorati affiancati l’uno all’altro.
Simile è anche il numero dei colori utilizzati, limitati, tre 0 quattro al massimo, oltre al nero. In definitiva, egli dunque subordinò i mezzi tecnici della pittura a quelli della grafica. Si ottiene un effetto estraniante, irreale, meccanico; l’artista lavora come una macchina, con una precisione estrema, al fine di cancellare il suo tratto personale.
L’uso dei cartoon diventa, per Roy Lichtenstein, un mezzo per elaborare qualsiasi tipo di immagine. Infatti egli passerà in esame, attraverso questo suo filtro meccanico, di volta in volta, il linguaggio della pittura, gli stili e la storia dell’arte, dell’architettura e delle arti decorative, in una serie di tele che riprendevano le caratteristiche principali dei più noti stili del XX secolo. La costruzione di Cézanne o Mondrian, la pennellata dell’Action Painting (nella serie Brushstrokes), i soggetti di Picasso, o anche i documenti artistici del passato, dell’archeologia (come in “Tempio d’Apollo“, 1964), traducendole sempre in “riproduzioni” di carattere tipografico.
C’è ironia nel lavoro di Roy Lichtenstein, ma un’ironia fredda, distaccata, lucida e oggettiva, messa al servizio dell’ossessione per lo studio della percezione visiva.
Il suo incessante lavoro, dedicato anche alle realizzazione di sculture nel suo tipico stile pop, e la sua sperimentazione costante, saranno però interrotte bruscamente a seguito della sua morte, avvenuta nel 1997. Il suo stile e le sue opere, tuttavia, lo rendono ancora oggi, come una delle figure più rappresentative della cultura americana del secondo dopoguerra.
Marina Borrelli