Non è per fanatismo, per superficialità, o per tutto quello che può muovere una fangirl, che la sterminata fetta di umanità innamorata di Jake Gyllenhaal ne adora ogni mossa. O meglio, non solo per quello.
È anche perché, a metà tra l’aria burbera che di solito ha e una simpatia semplice e spontanea dispiegata generosamente, Jake è cresciuto in altezza, in esperienza, in talento, fin da quella celebre interpretazione cult che fu “Donnie Darko” (Richard Kelly – 2001). Dopo tanto tempo, si potrebbe persino dire che è facile affezionarsi a lui.
È da poco uscito il bruttino “Southpaw” (Antoine Fuqua – 2015), insieme a “Everest” (Baltasar Kormákur – 2015) e al trailer di “Demolition” (Jean-Marc Vallée – 2015).
Alcuni dei ruoli migliori
Jack Twist fu messo in ombra da Ennis Del Mar in seguito, quando Heath Ledger morì ed esplose la paranoica ricerca in ogni suo film della manifestazione di quel talento promesso e non del tutto sviluppato, fermato in corsa un giorno d’inverno. Ma in quella che è una delle più acclamate storie d’amore di tutti i tempi, “I segreti di Brokeback Mountain” (Ang Lee – 2005), scritto e diretto con una limpidità di ghiaccio, Jake Gyllenhaal è un uomo innamorato in tutta la sua maestosa semplicità, onestà, verità. Una pellicola che scava a fondo di chi la guarda, e che tutt’oggi sembra aver conservato una nicchia gelosamente custodita nello stesso Jake.
Duncan Jones dirige il nostro Jake in “Souce Code” (2011), facendone il perno della sua fantascienza. Anche qui la regola imperante è la semplicità di linee pulite. Una sceneggiatura snella, che non si sbilancia e si mantiene scarna e diretta: così è anche Jake Gyllenhaal. È un soldato, quindi disposto ad eseguire al meglio gli ordini senza stare a discutere; è pronto all’azione e anche all’inventiva, tanto da poter sbrogliare la matassa in condizioni pessime. Non è un cervellone misterioso che tiene i suoi trucchi per sé per poi vantarsene con gli spettatori: a loro mostra paura, incertezza, tristezza ed esasperazione, senza affettazione, ma con quella solita apparenza di verità che contraddistingue l’attore.
Nel 2013 escono due film diretti da Denis Villeneuve, uno più hollywoodiano e un altro personalissimo: “Prisoners” e “Enemy”. Se il primo è uno dei film più belli dell’anno, il secondo è una piccola opera d’arte. A questo contribuisce un regista la cui personalità e il cui senso artistico sono fortissimi, certamente, ma perché non complimentarsi con lui anche per la scelta dell’attore? Jake Gyllenhaal è, nel primo caso, un agente di polizia il cui background e la cui vita al di fuori dell’indagine sono totalmente ridotti a zero, ma dotato di una dedizione al caso e di un carattere pacato che suscitano empatia e solidarietà per la posizione difficile in cui si trova. Nel secondo caso, invece, la peculiarità della pellicola si concretizza proprio nell’abilità recitativa, senza la quale non avrebbe senso: Jake è due persone allo stesso tempo, l’una specchio dei desideri dell’altra e da essa completamente diversa per indole.
Infine, è già stato notato quanto il suo Lou Bloom in “Lo sciacallo – Nightcrawler” (Dan Gilroy – 2014) sia straordinario. Asettico per quel che riguarda la morale o un qualunque scrupolo di correttezza, il reporter di cronaca nera esterna la propria ossessione nel non battere le ciglia, nell’essere ridotto a un burattino di pelle e ossa tenuto in piedi da un assurdo obiettivo.
La sobrità di Jake Gyllenhaal
È difficile catturare il cardine della straordinaria efficacia recitativa di Jake Gyllenhaal, ma forse un buon sostantivo per farlo, o almeno provarci, è proprio “sobrietà”. Di solito si fa notare come la tecnica attoriale americana preveda uno stile estremamente vicino alla quotidianità, che non conta molto spesso espressioni del viso e atteggiamenti eclatanti, ma che anzi si esprime in cenni minimi (un tipo di espressività che, comunque, di certo non riguarda gli italiani). Tale caratteristica a volte trae in inganno e rende non immediata la distinzione tra un bravo attore e uno mediocre.
Jake Gyllenhaal è un attore americano, “più americano” degli americani, potremmo aggiungere scherzando, in quando losangelino. In questo segue le regole generali e non compie molti slanci verso la teatralità accentuata. Non si può dire però che sia un minimalista, un pigro che può contare i tipi di personalità assumibili sulle dita di una mano. Anzi, sa dare un’impronta specifica a ogni film.
Per questo diciamo che è “sobrio”: senza fronzoli, moderato, esatto, senza forzature o tracce macchiettistiche, sa incarnare dei personaggi che in automatico e senza scetticismo si accettano come effettivi soggetti delle vicende. E questo accade sempre, a prescindere da malattie mentali, ossessioni, situazioni o accadimenti particolari, caratteristiche strambe o origini non ordinarie dei suoi personaggi. In qualche modo essi risulteranno sempre plausibili.
In effetti, ci si fida di Jake Gyllenhaal, e questo succede probabilmente perché in ogni occasione dimostra di essere una persona genuina, soprattutto – è quello che ci interessa ora – dal punto di vista professionale.
Domanda: “[‘I segreti di Brokeback Mountain’] ha fatto discutere sul tuo orientamento sessuale. […] Lo hai preso come un complimento?”
Risposta: “Sì. È un enorme complimento, quando reciti qualcosa a cui le persone credono così profondamente. […] Se qualcuno ci crede, ci sei riuscito.“
Ecco cos’altro: come un vecchio narratore pacato, Jake Gyllenhaal sa raccontare la storia di chi impersona e coinvolgere chi lo ascolta. Capita che i suoi personaggi non abbiano un passato, come in “Prisoners”, o non camminino lungo trame convincenti, come in “Prince of Persia – Le sabbie del tempo” (Mike Newell – 2010), ma in qualche modo Jake Gyllenhaal non lo fa pesare: in quei nomi che non sono il suo ci si infila dentro e li muove, dotandoli di una qualche forma di anima piacevole da assecondare nel loro percorso… e, se proprio non è riuscito a edificare qualcuno in sala, è per lo meno stato di (davvero) ottima compagnia.
Chiara Orefice