Nella Firenze della prima metà del Quattrocento un giovane pittore di nome Guido veniva presentato alla Compagnia di San Niccolò presso la chiesa del Carmine. Il semplice nome Guido non aiuta a identificarlo, ma la sua pittura celestiale non lascia spazio agli errori: una pittura dalla straordinaria capacità evocativa, tanto da procurargli lo pseudonimo di Beato Angelico.
Le figure che egli dipinse suscitarono anche in Giorgio Vasari parole d’ammirazione perché “tanto belle che paiono veramente di Paradiso”. Nelle pale che lo resero celebre le tonalità utilizzate erano luminose e allo stesso tempo discrete, così come si conveniva a una pittura che veniva realizzata per suscitare preghiera e meditazione. Lo stile pittorico di Beato Angelico era sicuramente espressione della committenza, ovvero della cultura umanistica della riforma osservante, ma non diveniva mai eccessivo o altisonante.
La semplicità della sua pittura fece infatti riflettere lo stesso Vasari che affermò che “aveva per costume non ritoccare né accorciare mai alcuna dipintura, ma lasciarle sempre in quel modo che erano venute per la prima volta, per credere, secondo ch’egli diceva che così fusse la volontà di Dio”.
Non sappiamo molto delle sue origini e l’assenza di documenti ha portato a credere che la sua famiglia fosse molto povera e per questo motivo Guido, insieme a suo fratello Benedetto, era entrato in convento. Questa ipotesi però contrasta con un documento che è giunto fortunatamente sino a noi: si tratta di un pagamento di dodici fiorini d’oro per la realizzazione di una tavola dipinta da collocare nella Cappella Gherardini nella chiesa di Santo Stefano. Si trattava di una commissione importante, una richiesta dei “capitani” di Orsanmichele, e in quanto tale è probabile che Guido si fosse già guadagnato una discreta fama come pittore.
Per quanto riguarda la sua vocazione probabilmente era maturata grazie agli stretti contatti con i domenicani di Santa Maria Novella, per i quali sappiamo di certo che aveva dipinto, prima degli anni venti, un cero pasquale. Ed è proprio nel convento di Santa Maria Novella che Guido incontrò l’arcivescovo di Firenze, destinato poi a divenire santo. Sant’Antonino, all’epoca Antonino Pierozzi, era uno dei maggiori protagonisti del rinnovamento che stava maturando all’interno dell’ordine domenicano. Nonostante Guido fosse un pittore, un lavoratore “civile”, e dunque secondo il diritto canonico escluso dalla vita del clero, la sua sincera vocazione e la protezione di Antonino Pierozzi gli consentirono non solo di entrare nell’ordine domenicano, ma anche di ricevere dallo stesso ordine grande sostegno per la sua attività artistica.
Un momento importante della vita artistica di Beato Angelico fu il trasferimento a Fiesole. In questa piccola cittadina vi era un convento domenicano dove era stata impiantata una bottega destinata a diventare una fiorente scuola miniatoria, ed è qui che l’Angelico realizzò una delle sue opere più famose e soprattutto l’unica a trovarsi ancora conservata nel luogo per cui fu concepita: la “Pala di San Domenico”. La pala subì dei cambiamenti nel Cinquecento, come ci ricorda il Vasari, e l’artefice fu Lorenzo Credi: egli trasformò l’originale trittico cuspidato in una pala di forma rettangolare, probabilmente per motivi di conservazione. Malgrado le alterazioni, l’opera è considerata “uno dei vertici dell’estremo stile tardogotico in Firenze”, come afferma Bonsanti.
Tra i soggetti preferiti dall’Angelico vi è l’Annunciazione, e tra le più belle che egli realizzò ricordiamo gli esemplari conservati al Museo del Prado di Madrid e al Museo di Cortona. Entrambe sono precedenti diretti dell’ “Annunciazione” del Convento di San Marco a Firenze. Qui, suddivise tra dormitori, chiostri e sala capitolare, Beato Angelico realizzò molte delle sue opere più belle, cariche di misticismo e spirito religioso. Tra le tante ricordiamo il “Cristo deriso” e il “Giudizio Universale” nella sala capitolare.
Beato Angelico morì il 18 febbraio del 1455 e per molti anni le sue opere non furono capite del tutto, in quanto considerate di transizione, di passaggio tra Gotico e Rinascimento, fino alla prima metà del secolo scorso. Successivamente sono stati ritrovati molti documenti in base ai quali è stato possibile attribuire nuove opere all’artista, opere che hanno creato i presupposti per una nuova lettura dell’Angelico. Una lettura che non può escludere i nessi intellettuali con il contesto del periodo, avendo l’arte di Beato Angelico una forte connessione con il pensiero dei più grandi umanisti della Firenze del Quattrocento, ma anche con le più grandi famiglie fiorentine, tra le quali i Medici, che proprio in quegli anni gettavano le basi per la propria ascesa.
Manuela Altruda