I copisti o amanuensi, definiti scribi nell’antichità, sono coloro che attraverso l’estenuante lavoro della trascrizione hanno permesso la salvaguardia del patrimonio culturale antico. Mediante la loro indefessa attività, opere fondamentali per la storia della letteratura e del pensiero non sono andate perdute. La stessa Bibbia non sarebbe potuta giungere fino ai nostri giorni, se non grazie al duro lavoro dei copisti.
Copisti, ma non infallibili
Il lavoro dei copisti, sia che vogliamo considerarlo noioso, stressante, usurante, oppure rilassante ed istruttivo, di certo non può essere esente da errori. L’attività di trascrizione manuale, soprattutto quando è protratta per lunghe ore, è inevitabilmente soggetta a degli errori, a delle sviste. Inoltre, non tutti i caratteri e non tutti i sistemi di scrittura si equivalgono.
I caratteri dell’ebraico biblico infatti, sono facilmente fraintendibili. Alcune lettere e alcuni segni si assomigliano in un modo sconcertante. Basta pensare alla differenza tra la lettera sin שׂ e la lettera šin שׁ: solamente la posizione del puntino in alto le differenzia. Se il puntino è in alto a destra, allora si tratta della lettera šin, notevolmente comune, che si pronuncia sh come la s di sciame, scempio o scellerato in italiano. Se il puntino è in alto a sinistra, invece, abbiamo la più rara sin, che si pronuncia in italiano come una s comune.
La differenza tra la sin e la šin è solamente un esempio molto semplice: basta dare uno sguardo all’immagine sopra, in evidenza, per rendersi conto del numero dei segni e quindi della complessità del lavoro dei copisti.
Copisti, tra errore volontario e involontario
Se il lavoro di trascrizione indusse inevitabilmente i copisti a commettere errori, bisogna precisare che non tutti gli errori furono involontari. Ovvero, al di là dell’errore classificabile come svista nell’atto della copiatura, a volte i copisti “errarono” volutamente. In questo caso diventa però improprio parlare di errori, perché si trattò di vere e proprie scelte ermeneutiche.
È la critica testuale a distinguere tra errori accidentali e volontari. Essa è la disciplina che, attraverso lo studio dei vari manoscritti giunti fino a noi, cerca di individuare la forma più antica, il cosiddetto testo originale[1]. Gli errori accidentali più comuni che compirono i copisti, detti anche errori di copia, sono i seguenti:
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- le omissioni;
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- le aggiunte;
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- la confusione di lettere o parole simili;
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- la metatesi di lettere o parole (ovvero l’inversione d’ordine, ad esempio copiare “ctv” al posto di “cvt”);
- la divisione o unione errata di lettere o parole (poiché anticamente le parole erano scritte senza spazi fra loro per risparmiare la preziosa pergamena).
Tra gli errori volontari principali troviamo:
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- gli adattamenti grammaticali o lessicali del testo (ovvero i copisti scelsero di sostituire un termine raro con un suo sinonimo di uso più comune);
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- l’armonizzazione (aggiunte/omissioni per armonizzare stilisticamente due frasi vicine);
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- le glosse, le esplicitazioni, le conflazioni;
- le correzioni dettate da preoccupazioni teologiche o dottrinali.
La fantasia dei copisti
Fra gli errori volontari, il caso più interessante è quello elencato per ultimo: le correzioni fatte per evitare ambiguità o scandali teologico-dottrinali. Riportiamo, fra i vari esempi possibili, un caso veramente singolare, in cui i copisti espressero tutta la loro sensibilità e la loro inventiva.
L’esempio è tratto dal libro dei Giudici, capitolo 18, versetto 30, che qui riportiamo più ampiamente per far comprendere il contesto immediato.
Quelli dunque, presi con sé gli oggetti che Mica aveva fatto e il sacerdote che aveva al suo servizio, giunsero a Lais, a un popolo che se ne stava tranquillo e fiducioso; lo passarono a fil di spada e diedero la città alle fiamme. Nessuno le prestò aiuto, perché era lontana da Sidone e i suoi abitanti non avevano relazioni con altra gente. Essa era nella valle che si estende verso Bet-Recob. Poi i Daniti ricostruirono la città e l’abitarono. La chiamarono Dan dal nome di Dan, loro padre, che era nato da Israele; ma prima la città si chiamava Lais. E i Daniti eressero per loro uso la statua; Giònata, figlio di Ghersom, figlio di Mosè, e i suoi figli furono sacerdoti della tribù dei Daniti, finché gli abitanti della regione furono deportati. Essi misero in onore per proprio uso la statua, che Mica aveva fatto, finché la casa di Dio rimase a Silo.
L’analisi letteraria del libro dei Giudici rende molto eloquente questo racconto. L’intero libro è caratterizzato da una parabola ascendente di depravazione e violenza[2]. Le varie tribù dimenticano di ascoltare Dio e le conseguenze sono aberranti. In questo caso una città isolata viene distrutta, i suoi abitanti pacifici uccisi e viene eretto un idolo contro l’esplicito divieto divino. Un esempio di come il culto possa poi assumere una funzione legittimante.
Il testo parla di Gionata, sacerdote di Israele della tribù dei Daniti, che si macchia di idolatria: ecco il punto! Il testo dei Giudici afferma chiaramente che Gionata discende da Mosè, il profeta per antonomasia, il mediatore tra Dio e l’uomo al Sinai secondo il racconto di Esodo 19, senza dubbio la figura normativa più importante dell’Antico Testamento e della Torah. Lo stesso libro del Deuteronomio, che conclude la Torah, è formato per la quasi totalità da discorsi che il narratore attribuisce a Mosè.
I copisti furono scandalizzati da questa ascendenza a tal punto da introdurre un errore nel testo, optando per un’innovazione[3]. Il termine Mosè viene così sostituito dal termine Manasse al fine di evitare lo scandalo o comunque ridurlo. In realtà, non tutti i manoscritti antichi riportano la sostituzione. Così, di fronte a dei manoscritti antichi discordi e non avendo a disposizione gli strumenti odierni della critica testuale per discernere la versione più attendibile, gli amanuensi optarono per una soluzione originale.
Se il testo di per sé suggeriva uno scandalo, ovvero una macchia nella discendenza di Mosè, rischiare di alterare il testo della Parola di Dio, scegliendo definitivamente quale versione preferire, sarebbe stato del tutto impensabile per quei copisti. Il caso è veramente notevole e degno di attenzione: la loro personalità entra in conflitto e la soluzione trovata è strabiliante.
Ecco la soluzione escogitata: come è visibile dalle immagini, la parola Mosè e il termine Manasse in ebraico si distinguono per un’unica consonante di differenza, una n.
Mosè è scritto con tre consonanti: m, š, h mentre Manasse è scritto con le stesse consonanti con l’aggiunta della n. Così ecco l’idea dei copisti, introdurre una -n- a Mosè per farlo divenire Manasse: ma non definitivamente. Questa scelta viene fatta con l’intenzione di non manipolare la Parola di Dio, così, ecco che la -n- in questione viene aggiunta sopra la linea di scrittura, sospesa, secondo la terminologia della critica testuale.
In questo modo la sostituzione di Manasse a Mosè è facilmente intuibile allo studioso, che può subito comprendere a quale tipologia di errore volontario il termine in questione appartenga. Sarebbe stato impossibile capirlo, se tutti i manoscritti avessero riportato la sostituzione vera e propria.
Così, classificare l’errore in Giudici 18, 30 è molto facile: molti manoscritti ebraici sono giunti a noi con la -n- sospesa, ma molti altri non la riportano ed esistono traduzioni greche di entrambe le versioni, con Manasse o con Mosè.
Christian Sabbatini
Bibliografia:
R. Fabris et alii, INTRODUZIONE GENERALE ALLA BIBBIA, ELLEDICI, Torino 20062 (LOGOS Corso di Studi Biblici, 1), 407-409.
La Bibbia. Via Verità e Vita, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2009, 463s. (nota).
Immagini tratte dal testo della Biblia Hebraica Stuttgartensia
[1] La distinzione tra errori volontari ed involontari che segue si riferisce unicamente all’Antico Testamento; qui non vengono presi in considerazione i vari errori di trasmissione del testo del Nuovo Testamento.
[2] A. Wénin, Échec au Roi. L’art de raconter la violence dans le livre des Juges, Lessius, Bruxelles 2013 (Le livre et le rouleau, 43), 80-82.
[3] Parliamo sempre di copisti al plurale per motivi editoriali, anche se di fatto è impossibile sapere se la scelta fatta risalga ad un singolo o sia il frutto di una decisione collettiva.