Il dibattito non si esaurirà presto: è giusto che David Lagercrantz abbia continuato il lavoro di Stieg Larsson, pubblicando il quarto capitolo della saga “Millennium“? …Lo spirito dei vecchi romanzi sarà rispettato? …E cosa succederà a Lisbeth Salander, un personaggio così amato grazie anche alla sua resa cinematografica? Che ne sarà di lei? Chi diventerà?
Mah. Noi intanto, ci chiediamo innanzitutto chi e cosa è stata fino ad ora.
La Lisbeth Salander letteraria
Fiumi e fiumi di inchiostro: questo il tributo reso alla creatura che Stieg Larsson in tre romanzi ha avuto successo nel far luccicare come una magnifica scultura di ghiaccio, dai riflessi che attirano lo sguardo, dalle estremità acuminate e gelide che respingono il tocco.
Fiumi e fiumi di inchiostro sono stati versati prima di chiunque altro da quello stesso creatore che ha rifinito la sua ragazza col drago tatuato come a volerla rendere concreta, e in realtà tenendola ben lontana dalla realtà grazie a, o a causa di, troppo numerose qualità eccezionali: fama mondiale come hacker, sovrumana memoria fotografica, spiccata intelligenza logico-matematica, e, poiché ci stanno sempre bene, parecchi problemi legati alla personalità, dovuti a un passato non roseo, che la portano ad essere diffidente e vendicativa.
David Fincher, nel descrivere il comportamento che il protagonista maschile deve assumere per poterla avvicinare, dirà che Lisbeth Salander è come un gatto. Bisogna starle di fronte con onestà, non invadere il suo territorio, essere cauti e discreti, magari offrirle del cibo.
La freddezza di Lisbeth Salander è contemporaneamente: la spina dorsale dell’interesse suscitato dal suo personaggio; la sfida principale per chi le si accosta, lettore o personaggio che sia.
Chi la ama vorrebbe essere capace di superare lo scudo che si è alzata intorno per scoprire cosa c’è dietro, e allo stesso tempo non intaccarlo per non scheggiare la perfezione di quella statua di ghiaccio.
Noomi Rapace
Dopo la morte dello scrittore Stieg Larsson, il caso editoriale della trilogia “Millennium” scoppia; nel 2007 nessuno legge altro; le copie vendute in tutto il mondo arrivano alla notevole cifra di 8 milioni; nel 2009 dalla Svezia arriva il film di Niels Arden Oplev tratto dal primo volume della trilogia: “Uomini che odiano le donne”.
In quella che è sembrata una corsa disperata al cinema prima che ci arrivassero gli americani, Oplev ha girato una pellicola che entusiasmò, nonostante le numerose differenze dal romanzo, per il forte impatto visivo e la crudezza (legittima) della sceneggiatura.
Qui Lisbeth Salander è interpretata da Noomi Rapace, effettivamente troppo vecchia, se vogliamo essere fedeli al libro. Non è pignoleria: Rapace, attrice abbastanza valida, è troppo consapevole di sé e del mondo, per nulla intimorita e, anzi, matura e talvolta riflessiva. Non c’è ferocia in lei. Mette paura, è vero, ma solo perché ha l’aria di ragionare molto e in modo crudele.
Ogni tanto nei romanzi si accenna all’istinto di protezione che Lisbeth Salander dovrebbe suscitare in chi un po’ l’ha capita. Noomi Rapace è lontanissima da tutto ciò: semmai, con l’impassibile sicurezza che emana la sua figura dritta e determinata, induce a sperare di venire difesi da lei in caso di violenza subita. D’altro canto, questo modo di stare in piedi davanti al mondo rispecchia il senso pratico che Lisbeth è costretta ed è capace di dimostrare in più di un’occasione, tradotto in muta e preveggente efficienza.
Rooney Mara
In apparenza un giallo – piuttosto riuscito, con la sua svolta nel neonazismo venato di citazioni bibliche –, il primo capitolo di “Millennium” potrebbe persino definirsi il semplice prologo della storia del rapporto fra Lisbeth e Mikael Blomkvist, interessante per la cesellatura psicologica con cui è portata avanti.
Una sorta di esperimento sociale: cosa succede se un giornalista di mezza età fortunato con le donne incontra una ragazzina della metà dei suoi anni con un cervello ben al di sopra della media umana?
È su questo che David Fincher si focalizzerà.
Nel 2011, infatti, Lisbeth è di nuovo messa in scena, stavolta in un film proprio “hollywoodiano”. Il regista, crea qualcosa di più concitato e patinato, zoomando con esplicito interesse sulla ragazza e sulla sua psicologia, come ha voluto riassumere simbolicamente nella sequenza dei titoli di testa.
Lisbeth stavolta è Rooney Mara. A lei potrebbe mancare la profondità di sguardo che Rapace aveva, quasi a voler mostrare dalle pupille il lavorio incessante della mente. Quel che la distingue in positivo è, però, il misto di terrore verso il mondo e di istintiva, animalesca aggressività.
Mara si muove davvero come un gatto, con gli occhi spalancati che studiano l’intruso Blomkvist, infiltratosi nel suo spazio vitale. I suoi movimenti sono rapidissimi, come di chi agisce con impulsività… o come di chi è troppo intelligente per impiegare più di un paio di secondi ad elaborare un piano.
Probabilmente nessuna delle due interpretazioni è quella giusta, e nessuna delle due è sbagliata. Il personaggio di Larsson è arabescato al punto da evadere l’umanità e diventare figura ideale e irrappresentabile. E per questo, ormai, è immortale.
Chiara Orefice