Se si scrivesse culo in un testo scolastico per la maturità, la parola verrebbe cerchiata di rosso e il compito verrebbe additato di volgarità. Non la pensava così Dante, che nel 1300 già scriveva «ed elli avea del cul fatto trombetta», cioè sì, proprio ciò che c’è scritto, egli aveva reso trombetta il suo culo, o più semplicemente aveva scoreggiato. Non è l’unico caso in cui tanti professorini politically correct storcerebbero il naso di fronte alle invenzioni del più grande poeta italiano, il primo fra i tre inventori di parole presentati in questa galleria scavata fra geni della letteratura, oltre che letterati. La verità è che Dante, così come Shakespeare e Joyce, era un poeta di incredibile modernità, proiettato già più avanti della sua epoca. È per questo che gli influssi del suo linguaggio sono ancora vivi, e molto, in noi, così come quelli shakespeariani e joyciani lo sono negli inglesi.
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Le parole di Dante Alighieri
Se un ragazzino si accorgesse di aver dimenticato, un’ora prima, una banconota da 20 euro su un sedile del bus, un qualsiasi suo amico gli risponderebbe «Eh, allora stai fresco!», come per dire «Col cavolo che la ritrovi più, sei fregato». In questo caso, l’espressione serve a disilludere qualcuno in una speranza che si ritiene infondata. E se il ragazzino riflettesse sull’errore commesso, penserebbe fra sé e sé «Se lo viene a sapere papà, sto fresco!», ossia «Sono nei guai», dove stare fresco significa andare incontro a un castigo. Per rendere plausibile l’uso di questo modo di dire, questo vocabolo deve essere messo in bocca a dei ragazzini. Ma la sua origine, più che fra le strade dei quartieri popolari, è nobile e risiede nella Commedia, canto XXXII, v. 117, «laddove i peccatori stanno freschi», perché immersi nel Cocito, il lago ghiacciato riservato ai traditori. Il tempo ne ha limato la durezza, e alla dannazione eterna si sono sostituiti lavate di capo e piccoli inconvenienti, ma la paternità del termine, ancora oggi percepito come popolare, è del guelfo bianco poeta del ‘300. Così anche i più esplicitamente danteschi «Galeotto fu…» e «Non ragioniam di lor ma guarda e passa», ben noti per essere citazioni letterali della Commedia, sono ancora fluentemente in uso nel nostro linguaggio. Quando parliamo dell’Italia diciamo Il bel Paese, e fu Dante a chiamarla così per primo, al v. 80 del canto XXXIII dove definisce Pisa «vituperio delle genti del bel paese», in linea con la grande rivalità fra Firenze e la città toscana; e quando Benedetto XVI ha abdicato, favorendo la successiva elezione di Francesco, i giornali hanno parlato di gran rifiuto, lemma coniato da Dante e utilizzato con disprezzo nel canto III v. 60 per parlare della rinuncia al soglio pontificio di Celestino V, che aprì la strada al famigerato Bonifacio VIII, che fu l’artefice del suo esilio da Firenze. Infine, «senza infamia e senza lode» erano gli ignavi, tanto odiati da Dante e attaccati con questa frase, all’epoca gravissima ma, invece, oggi con valenza praticamente neutra.
James Joyce
Lo scrittore dell’Ulisse, del Finnegans Wake e del Dedalus, intellettuale di spicco del Novecento, fu padrone degli stili più diversi e del flusso di coscienza, ma fu anche un inventore di neologismi e parole. Nello scrivere le sue opere più importanti, sopraggiungeva in lui la necessità di esprimere stati, sensazioni, concetti per cui la lingua non prevedeva termini adeguati. E così, a comporre il suo linguaggio, nascevano parole polisemiche, parole basate sui suoni, parole macedonia, neologismi di ogni tipo. Quark, crasi di question mark nell’Ulisse, venne utilizzata dal fisico Gell-Mann per dare il nome alle appena scoperte particelle subatomiche. Sunnywinking leaves, sempre nell’Ulisse, indica le foglie che muovono il loro dorso al vento come fossero delle palpebre, traducibile soltanto azzardando un foglie sbattipalpebralsole. Monomyth è un viaggio ciclico intrapreso da un eroe mitologico; mrkgnao l’onomatopea del verso del gatto; yogibogeybox gli strumenti e l’equipaggiamento che gli spiritualisti portano con sé; whenceness è il punto di origine, il luogo da cui qualcosa nasce e si sviluppa; tattarrattat è l’onomatopea del bussare alla porta, e pare sia la più lunga parola palindroma mai usata nella letteratura inglese; smilesmirk è l’incrocio fra un sorriso e un ghigno sprezzante; e poppysmic descrive il suono dello schiocco delle labbra, usato in una delle frasi più rappresentative del linguaggio joyciano: «Whispering lovewords murmur liplapping loudly, poppysmic plopslop», tradotto con molte licenze in «Sussurranti parole d’amore mormorano labbranlambendo con clamore, schioccosmiche plopslop». Suoni, immagini, evocazioni, concetti indefiniti che senza essere traducibili si formano lo stesso nel lettore, caratterizzando il linguaggio onirico di Joyce.
William Shakespeare
Poche presentazioni occorrono per il Bardo inglese. William Shakespeare è lo scrittore imprescindibile della letteratura inglese, autore di poesie e opere teatrali conosciute universalmente, come Romeo e Giulietta e Amleto. Nella sua vita ha composto oltre un centinaio di opere, utilizzando 17.667 parole. Di queste, 1.700 sono inventate. E fra le 1.700 parole coniate dal poeta convertendo nomi in verbi, verbi in aggettivi, connettendo parole mai usate insieme prima di allora, aggiungendo prefissi e suffissi, e ora entrate nel linguaggio comune inglese, ce ne sono alcune considerate addirittura “elementari”.
Parole come bloody, control, critic, exposure, generous, lapse, invulnerable, sono tutte di sua invenzione, o da lui importate come derivati di altre lingue. Lonely, majestic, monumental, reliance, obscene, sportive, suspicious, baseless, countless, advertising, bedroom, dawn… e si potrebbe continuare, perché sono solo le più comuni e familiari per noi foreign speakers. Il segno lasciato nei parlatori anglofoni dal poeta è assai ampio, e l’esempio di Shakespeare, insieme a quello di Dante, conferma quanto la letteratura influisca sull’evoluzione della lingua, così come il parlato comune.
Altri inventori di parole
Shakespeare, Dante e Joyce sono tre scrittori tradotti e studiati in ogni angolo del mondo. Come loro, tanti altri autori hanno inventato parole o espressioni. L’unica differenza, per la quale si è scelto di approfondire particolarmente questi tre, è che le loro sono rimaste nel linguaggio parlato, lasciando in qualche modo un segno indelebile sull’evoluzione di una lingua. Autori geniali come Lewis Carroll e il suo Jabberwocky, poesia nonsense composta con parole inventate e contenuta in Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, o come Fosco Maraini e le sue parole dai suoni evocativi e plausibili, racchiuse in poesie in cui non si capisce niente ma si capisce tutto, vanno necessariamente ricordati per la voglia di uscire fuori dai margini, di rivoluzionare la propria scrittura. Inventare è, d’altronde, la funzione principale e più affascinante del nostro cervello, e nessuno scrittore dovrebbe privarsi della soddisfazione di sfruttarla.
Davide Pascarella