La mostra Nine at Castelli curata da Robert Morris e tenuta presso lo spazio di Leo Castelli a New York nel 1968 fu determinante per la configurazione del nuovo panorama artistico degli anni ’60, e in particolar modo per segnare gli inizi della Process Art. L’interesse all’epoca, si spostava verso situazioni aperte, mutevoli, aleatorie, il coinvolgimento artistico si concentrava sul processo del fare e del situare, anziché sulla preoccupazione di un risultato estetico in sé compiuto. L’uso funzionale dei materiali era soppiantato da una libera manipolazione e sperimentazione della materia e delle sue possibilità di interazione con l’instabilità e la mutevolezza di fattori contingenti come ambiente, forza, gravità, luce o deperibilità.
Tra i nove artisti che si confrontavano vi era un giovane Richard Serra, che in quell’occasione presentava Splash piece: piombo fuso gettato nella giuntura fra il pavimento e la parete, che solidificato incorporava l’azione del getto e insieme quella della forza di gravità; Scatter piece in cui strappava e gettava a terra dei pezzi di caucciù fino ad ottenere un disordinato ammasso di materia; infine nel terzo lavoro costruiva una situazione di equilibrio precario, le cui parti non saldate, erano bilanciate tra loro da forze di peso e gravità, così una lastra di piombo antimonio era trattenuta contro il muro da un elemento cilindrico che fungeva da puntello, Prop piece.
Non era che l’inizio della promettente carriera di Serra. Conosciuto soprattutto per le sue monumentali sculture in acciaio, questo non è stato sempre il suo materiale d’elezione. Trasferitosi a New York, aveva iniziato a lavorare con materiali molto diversi, come la gomma e il piombo fuso. È stato in seguito che ha deciso di utilizzare esclusivamente l’acciaio, e questo perché innanzitutto sentiva che fino ad allora questo elemento non era stato utilizzato per le sue caratteristiche specifiche, il suo peso, il suo equilibrio, il carico gravitazionale, etc.
Non era stato, per tutto l’arco del XX sec., che un mezzo per creare una sorta di surrogato pittorico tridimensionale; Serra invece decise di sfruttarlo a partire dalle sue proprietà costruttive, utilizzarlo nella maniera per cui era stato creato. D’altronde ne sapeva abbastanza sull’acciaio e il modo di produrlo, avendo lavorato da giovane nelle acciaierie nella West Coast per mantenersi durante i suoi studi letterari a Berkeley.
Dai primi pezzi improntati sul processo di creazione, di aggressività cruda e fisica del materiale industriale, e dagli equilibri precari, i suoi lavori sono cresciuti a dismisura, toccando dimensioni e peso mozzafiato. Il tempo e la durata diventano il sottotesto di ciò che guida il suo lavoro, pensando che non ci sia qualcosa di più personale e soggettivo per l’uomo del suo rapporto con questi elementi. I lavori degli ultimi decenni, sono proprio stati dettati dall’interesse per il movimento del corpo, il tempo di attraversamento durante il percorso tra quelle gigantesche strutture, nonché la percezione e il senso di mutevolezza dello spazio fisico; la consapevolezza di non conoscere esattamente la propria posizione e dove i prossimi passi condurranno.
Pensiamo a Open Ended (2007-8) o ancora prima, alla serie Torques Ellipses (1996-99), spessi fogli svettanti in acciaio, curvati, piegati, labirintici, in continuità con lo spazio. Senza dimenticare Naples , la grande spirale di 15 m. arrivata a Napoli, nel cuore di piazza Plebiscito nel 2003, e che a dispetto delle sue 150 tonnellate, era stata progettata per dare un grande senso di leggerezza una volta attraversata.
Non vi è dubbio che per Richard Serra il contesto dia forma e determinazione alle sue opere; giunge nei luoghi portando con sé i suoi personali attrezzi del mestiere, agisce in termini di altezza, peso, gravità, collocazione, carico, equilibrio, funzionali alla creazione dei suoi archi, le sue spirali e le sue ellissi, impegnando lo spettatore in un’esperienza alterata dello spazio.
Serra continua a dividersi tra New York e Nuova Scozia. Dal 2005, un nucleo delle sue importanti opere sono state installate in modo permanente al Museo Guggenheim di Bilbao.
Marina Borrelli