Nel 1985 Marty McFly (Michael J. Fox) entra nello studio del dottor Emmett “Doc” Brown (Christopher Lloyd), fissando una primissima e gravida coincidenza: l’anno in cui gli spettatori si sedettero in sala a guardare il film di Robert Zemeckis fu lo stesso da cui Marty partì per il passato (per fare ritorno qualche minuto prima).
Non solo! Poco dopo Marty McFly partì anche per il futuro.
Be’, erano trent’anni che aspettavamo che tornasse. Trent’anni che aspettavamo il 21 ottobre 2015, il giorno in cui coincidono l’anniversario di “Ritorno al futuro” e l’approdo di Marty nella vita dei suoi figli adolescenti.
L’anniversario, il viaggio, il paradosso
“Ritorno al futuro” provocava un piacere solleticante tipico dei film ripiegati in un salto all’indietro lungo la quarta dimensione con atterraggio sulla propria linea temporale. In altre parole, è il brividino che corre lungo la schiena quando si interferisce con la propria vita futura modificando quella passata, infrangendo una legge ingombrante e lucida di sacralità: mai modificare il corso degli eventi.
Il vero divertimento poi è riconoscere come gli eventi presenti siano come sono perché già modificati, e quanto quindi il viaggio proibito fosse invece necessario per creare la possibilità di far accadere se stesso. Insomma, il paradosso di predestinazione: se la madre di Marty McFly ha chiamato così il figlio in ricordo del figlio stesso (che ha viaggiato all’indietro), da quale mente è discesa per la prima volta l’idea di imporre questo nome al bambino?
Il piacere della seconda parte della trilogia, che uscì quattro anni dopo, è invece opposto. Non si va alla ricerca delle cause dell’epoca di Marty, ma delle conseguenze verificatesi nei trent’anni successivi, stabilendo così i termini di una scommessa che oggi vede la resa dei conti, con tanto di grida al miracolo per la saggezza di chi previde gli skateboard volanti (che non sono propriamente “esistenti”) e dileggio di alcune opere allora non immaginate – la cui gravissima inefficacia nella promozione dello sviluppo sociale impegna i digitatori di post e tweet ogni giorno – quali la telecamera frontale in combinazione con il bastone da selfie.
Michael J. Fox
L’ondata di amore che travolge certe serie cinematografiche e le porta in trionfo durante i decenni ha spesso come conseguenza la sovrapposizione del nome dell’attore a quello del personaggio principale. Michel J. Fox è Marty McFly.
Ed è impossibile scindere i due, non solo perché l’immaginario collettivo in tropismi decennali ha fuso un nome e un volto crescendogli attorno con devozione, ma anche e soprattutto perché Fox fu bravo.
Basso di natura, della sua bassezza fece una caratteristica automaticamente percepita ma mai menzionata e alla base della simpatica che si ha per Marty: nello stile di un chihuahua permaloso, il diciassettenne è, sì, più mingherlino di chiunque, ma nonostante questo bellicoso e determinato. Ed è solo un esempio.
Fox sfrutta tutto di sé, dalla corporatura leggera con cui saltella in quasi ogni scena; ai lineamenti delicati con cui crea la sua stralunata figlia bionda; agli occhi chiari con cui chiarisce l’intenzione un attimo prima delle parole, instaurando un’intesa immediata con lo spettatore.
Si tratta di uno di quei casi in cui il protagonista, nella pulizia della pagina stampata di una sceneggiatura, potrebbe risultare anonimo e tagliato con l’accetta. Michael J. Fox ne fa invece un personaggio irresistibile, stereotipato dove serve e sorprendente altrove, dinamico e buffo.
Marty McFly
Che strano: il protagonista non è il tradizionale sfigato che guarda attraverso la mensa la ragazza bella, buona e cieca al suo amore.
Marty McFly è sin dalla prima scena un tipo a posto che ha lo specifico ruolo di incarnare il suo tempo, fino al cliché, in modo da cozzare deliziosamente con il padre, a sua volta incarnazione del ’55. Ed è invece quel padre a essere lo sfigato di turno, incapace di difendersi e inconsapevole di essere il futuro genitore di due primi figli altrettanto “poco cool“.
Marty McFly però è l’antitesi di suo padre e dei suoi fratelli. È sicuro di sé, attaccabrighe, pieno di talento, intraprendente: una testa calda con lo spirito dell’eroe che istintivamente prende il posto del cavaliere accanto a sua madre-versione-giovane. Tutto questo fa sì che sia costretto a insegnare al padre ad essere un po’ più come se stesso, provocando la concatenazione di eventi che porterà George McFly a ritrovarsi nel 1985 nelle vesti di un uomo di successo dal carattere forte… l’uomo cioè che, a differenza della sua prima variante, può ragionevolmente dirsi colui che ha messo al mondo e cresciuto il Marty che conosciamo.
Ricapitoliamo: inconsapevolmente, Marty McFly ha insegnato a George McFly 1.0 come essere George McFly 2.0 per far essere Marty McFly stesso così com’è.
Paradosso della predestinazione.
Chiara Orefice