Sam Mendes apre la propria carriera con un cult annunciato già alla sua prima uscita in sala. È il 1999: “American Beauty” ha un successo straordinario sia di pubblico che di critica, e frutta, tra l’altro, un Oscar al suo regista debuttante, uno a Kevin Spacey, attore protagonista, e un altro ad Alan Ball, lo sceneggiatore.
Se volessimo mettere un po’ di ordine nello scomodo – perché complesso – entusiasmo che “American Beauty” genera, dovremmo davvero, innanzitutto, tenere in grande considerazione la sceneggiatura.
Alan Ball era dell’età di Lester (Kevin Spacey) quando buttò giù la prima bozza, confessando in seguito di essere stato tormentato dal soggetto per un film sul tema della verità che sta dietro la bellezza per otto anni, prima di riuscire a riversare tutto sulla carta.
Il più suggestivo pregio di un’ottima sceneggiatura è il rinvio più o meno inconsapevole a mille implicazioni e temi tangenti, a partire da una sola domanda, l’unica che pone e a cui, forse, con molta pazienza e lucidità, potrà dare una risposta.
Alan Ball si domanda dov’è la vera bellezza. E la sua risposta è un elogio all’Uno Qualunque, al puntolino perso fra gli altri puntolini, in una casetta fra mille casette a schiera, che non ha nessun valore aggiunto, che è effettivamente qualunque e per nulla speciale. E, nonostante tutto, che è bellissimo. Basta solo che lo accetti, che non cerchi di trattenere a sé quella bellezza, e allora sarà un sereno granello scintillante di tutta la meraviglia che il mondo lascia scorrere su di sé.
È difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme, ed è troppo. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare… E poi mi ricordo di rilassarmi. E smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia. E io non posso provare altro che gratitudine, per ogni singolo momento della mia stupida piccola vita. Non avete la minima idea di cosa sto parlando, nel sono sicuro. Ma non preoccupatevi: un giorno l’avrete.
(“American Beauty”, monologo finale)
Riprendere alle spalle degli attori
Si trattava di una sceneggiatura un po’ pericolosa, perché non forniva alcuna argomentazione: chiedeva solo di fidarsi di quel che enunciava. Venne scelto Sam Mendes, perché ritenuto in grado di gestire personaggi alla ricerca di un significato nascosto nelle pieghe della realtà, e per questo molto delicati. E così fu.
Mendes non diresse solo una schiera di attori da urlo (oltre a Kevin Spacey, bravissimi sono anche Annette Bening e Chris Cooper), ma, attraverso di loro, riprese i membri di una famiglia della periferia medio-borghese americana, seduti in una perfetta postura, tutti rivolti verso la macchina da presa, intenti a mostrarsi al meglio. E seppe anche come girare attorno alle loro sedie, per riprendere la vergogna che nascondevano alle spalle.
Non fu la prima volta: nel 2008 diresse Laonardo di Caprio e Kate Winslet in “Revolutionary Road”, per temi simile, ma privo di tutta la serenità e la pace che avevano impresso la forma di “American Beauty”. Tratto dall’omonimo romanzo di Richard Yates del 1961, ciò che indaga Sam Mendes è di nuovo cosa si nasconde dietro la facciata con giardinetto di una graziosa piccola villa monofamiliare.
Come se si trattasse di monolitiche scene teatrali, i movimenti di macchina e gli stacchi sono ridotti al minimo, giocando con il fuoco e con le ombre, e riuscendo a riassumere un’intera sequenza in poche e dense inquadrature collettive. E così facendo Mendes conduce il gioco in un alternarsi di costruzioni simmetriche o comunque ordinate – come la classica inquadratura della famiglia a tavola – e di scorci e visuali sghembe dai contorni più scuri e marcati, così come si alternano i momenti in cui si concede alla famiglia di mostrarsi “normale” e quelli in cui ci si spinge dietro il palcoscenico che hanno allestito.
È poi tutta diversa la vicenda di una terza coppia, quella del gradevolissimo “American Life” (2009): Burt e Verona sono alla ricerca del perfetto nido dove crescere la bambina in arrivo, trovandosi quindi coinvolti in un road-movie alla scoperta del collante e del vero senso di una famiglia. La normalità, anche qui, è un concetto ben più complicato di quello di perfezione.
Il James Bond di Sam Mendes
Dopo aver gestito il grande Paul Newman nel 2002 (“Era mio padre”) accanto a Tom Hanks, e dopo aver contribuito alla crescita in fama e in talento del giovane Jake Gyllenhaal nel 2005 (“Jarhead”) – tutti personaggi maschili dalla corposa interiorità, soprattutto l’ultimo, essenziale ed efficace – ecco che Sam Mendes si trovò per le mani un altro personaggio maschile, il cui peso era la somma di ventidue precedenti film, sette attori iconici, svariati libri, e una fetta della cultura pop britannica.
James Bond.
Sorvoliamo l’argomento scottante, e cioè decidere se “Spectre” (2015), seguito di “Skyfall” (2012), sia il migliore o il peggior film di 007 mai uscito (chi è che ha deciso che deve avere un primato per forza?). C’è una pletora di competenze bondiane impegnate nello scontro.
Quel che ci interessa è scoprire come l’agente segreto si inserisca nella filmografia di Sam Mendes: sembrerebbe stonare in tutto. Fino ad ora i personaggi messi in scena erano ritratti nelle loro fragilità, la prima delle quali era aver bisogno di mostrarsi forti e pronti ad affrontare mondo e uomini. Ma 007 è tradizionalmente un quasi supereroe, l’antitesi di quanto appena detto, in effetti.
Be’, Sam Mendes smuove i tratti del suo protagonista, rifinendo il lavoro che in “Casino Royale” era già stato intrapreso: incupire James Bond, smascherarlo e trasformarlo di nuovo in uomo (quanto poco sopportiamo la perfezione e l’invincibilità, ormai). Pur dedicando spazio all’affettuoso fan-service che media il passaggio da servizi segreti del passato a quelli del presente-futuro, Mendes è tutto impegnato a sterzare verso un’espressività meditabonda e dura, meno elegante e più labirintica. Ecco di nuovo il gioco che gli piace: girare attorno al piedistallo, guardare il personaggio da diverse angolazioni e scoprire come appare nei suoi lati meno nobili.
Chiara Orefice