Con le esperienze di Al Nassar e Mouawad chiudiamo il discorso sul rapporto che, ancora oggi, lega il mondo dell’esilio con quello della letteratura.
Dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi non sono cambiate molte cose. La fine dei totalitarismi e il riconoscimento dei diritti dell’uomo, comunque non lavano via la macchia dell’esilio. Infatti in molte parti dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa, segnate dalla presenza di regimi dittatoriali, gli intellettuali continuano ad essere cacciati via dalla patria o sono loro stessi ad andarsene. Rei di essersi opposti a decisioni non condivise con i loro governi, alcuni di questi intellettuali hanno avuto a che fare persino con delle minacce di morte rivolte sia a loro che ai propri cari.
Al giorno d’oggi il numero degli intellettuali condannati all’esilio è alto, ma ovviamente non possiamo elencari tutti quanti in un solo articolo. Pertanto ci concentreremo soltanto su due casi emblematici che hanno segnato il secondo 900 : quelli di Al Nassar e di Wajdi Mouawad.
Indice dell'articolo
Hasan Atiya Al Nassar
Nato ad Ur in Iraq, Atiya Al Nassar si trasferisce a Baghdad per motivi di studio. Nel 1981, all’indomani della guerra contro l’Iran, diserta la leva militare e fugge in Italia stabilendosi a Firenze, dove si laurea in lettere e filosofia. Attualmente collabora con le riviste Semicherchio e Testimonianze.
Hasan Atyia Al Nassar è uno dei pochi poeti contemporanei che mette l’esilio al centro dei suoi componimenti. Tra i più significativi va citato Ultimo pianto di Ur, tratto dalla raccolta Il labiritno.
Mi è sembrata la terra dei Sumeri spogliata dei suoi fiumi, nuda.
Mi ha avvicinato la terra d’Iraq, tradita, già vogliosa di fiori seminati dai propri cari.
Ho udito le tenebre che difendono i miei morti, nel mio sangue.
Danza e canti all’alba, per un addio eterno, per addormentare il mio sogno,
cresce e muore il fuoco.
Come è bello, meraviglioso il Mediterraneo,
non ha memoria dei defunti.
Fratello, non camminare oltre
perché il cimitero del mare ti aspetta.
(…)
Al Nassar richiama alla guerra che vide contrapposti l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran di Khomeini negli anni ’80. L’esilio di Al Nassar è ovviamente legato alla malinconia verso la terra natale, ma anche da un senso di distacco da questa. In fondo sente che proprio la guerra ha macchiato Ur, la città in cui è nato e vissuto, facendogli perdere qualunque ricordo affettivo legato al passato.
(…)
Ho ascoltato sorrisi bruciare lo scandalo del fuoco,
tra il sangue e il fango di Ur traditrice, come la donna che ci inganna sin dall’inizio
prima di abbandonarci sul crocevia della sentiero.
(…)
L’esilio di Al Nassar è allora segnato da due poli opposti. La consapevolezza di non poter fare ritorno in una terra segnata da sanguinosi conflitti, ma anche la consapevolezza che non permetterà mai che anche il suo sangue venga versato in quelle terre marchiate dalle bombe e dalla violenza.
Wajdi Mouawad
Anche per Wajdi Mouawad la causa del suo esilio è la guerra. Nato in Libano nel 1968, a dieci anni fugge dal paese assieme alla sua famiglia a causa dello scoppio della guerra civile. Si trasferisce così a Parigi, ma le autorità francesi annullano il permesso di soggiorno ai Mouawad e questi si trasferiscono in Canada nel 1983, stabilendosi prima nel Quebec e poi nella città di Montreal. Qui Wajdi Mouawad si laurea alla Scuola nazionale di teatro del Canada nel 1991.
Romanziere e drammaturgo, per il teatro Mouawad mette in scena una tetralogia sul tema dell’esilio, dal titolo Il sangue delle promesse (tale tetralogia è composta dai drammi Litorale, Incendi, Foreste e Cieli). L’autore, nonostante la sua condizione, sembra essere in un certo modo “grato” all’esilio. Intervistato da Aléz Vicente nel 2014, pronuncia queste parole:
Questo è il laboratorio che mi ha dato la vita, quello dell’esilio(…)Mi ha spezzato in due e, allo stesso tempo, mi salvato la vita. Grazie a esso, sono scampato ai circoli viziosi nei quali sono stato cresciuto. Sono stato un bambino molto amato, ma mi hanno educato a odiare gli altri: ad aborrire musulmani, sciiti, sunniti, drusi, palestinesi, ebrei, israeliani. Tutti allo stesso modo.
Da condanna volontaria, incredibilmente l’esilio diventa l’ancora di salvezza da un destino che sembra già segnato. Anzi, sembra proprio che l’esilio abbia avuto il ruolo di salvatore, allo stesso modo di Al Nassar con la guerra civile. A tale proposito sono significative queste parole tratte da Les Cahiers du théâtre français, un saggio scritto da Mouawad nel 2008.
Da bambino avevo acquisito, per la forza delle cose e delle circostanze, un’estrema conoscenza delle armi da fuoco. Sapevo smontare, lucidare, pulire, rimontare e calibrare un kalashnikov (…) quando mi addormentavo sognavo il giorno ancora lontano in cui avrei avuto un kalashnikov tutto mio e avrei fatto parte di una valorosa milizia che, dopo numerosi massacri, di cui io sarei stato il geniale architetto, mi avrebbe fatto padrone del mio destino (…) Ma i miei genitori, che nulla sospettavano, si sono trasferiti in Francia per aspettare la fine di questa guerra che non è mai terminata. Allora, per l’impazienza, ho teso la mano e ho afferrato il primo oggetto che poteva, anche di poco, assomigliare a un kalashnikov, ed era una penna pilote fine V5. Le parole diventavano cartucce; le frasi caricatori; gli attori mitragliatrici, e il teatro giardino.
La fine del viaggio(?)
Con le esperienze di Al Nassar e Mouawad si chiude questo lungo ciclo dedicato ai rapporti tra esilio e letteratura. Abbiamo percorso il flusso dei secoli e abbiamo osservato le varie modalità con cui gli intellettuali hanno cercato di interpretare e di metabolizzare questa condanna: l’amarezza di Ovidio, Du Fu, Foscolo e Alberti da un lato, ma anche la speranza di Plutarco, Dante, De Stael e Neruda dall’altro. Chi nell’esilio ha visto un macigno difficile da trasportare e chi invece (spesso anche per propria volontà) la possibilità di chiudere i rapporti con la vita passata e il tentativo di costruirne una nuova, libera da ogni vincolo imposto dalla società.
Come si è già detto all’inizio i vari regimi presenti in Medio Oriente e in Africa (ma neanche le “democratiche” civiltà europee e gli Stati Uniti sono da meno) costringono ancora gli intellettuali a vedere nell’esilio l’unica soluzione per difendere e portare avanti le proprie idee, l’unico mezzo per non essere messi a tacere.
Così il viaggio continua, l’eterno pellegrinaggio dell’esiliato non finisce mai. Forse sono veritiere le parole pronunciate da Aleksandr Sokurov nel finale del suo film Arca Russa, diretto nel 2001. Parole che colpiscono l’animo e con le quali possiamo idealmente concludere questo ciclo.
È come un immenso teatro. Tutti conoscono il futuro, ma nessuno conosce il passato. Siamo destinati a navigare eternamente, a vivere eternamente
Ciro Gianluigi Barbato
Sitografia
Foto sulla guerra Iran-Iraq presa da Il post: http://www.ilpost.it/2013/08/20/la-guerra-tra-iran-e-iraq/