Pensando alle illustri origini del genere biografico, impossibile non richiamare alla mente le Vite parallele di Plutarco (I sec. d.C.). Marcel Schowb, nato a Chaville nel 1867, appartiene alla generazione di scrittori di fine ottocento di cui fanno parte, tra gli altri, personalità come Gide, Claudel, Valéry, Jarry; profondamente influenzati dall’esperienza simbolista, forti di questa conoscenza cercano tuttavia immagini alternativi nelle proprie opere, spesso rifugiandosi nell’assurdo e tra le pieghe dell’immaginazione. Alfred Jarry, ad esempio, inventa la ‘Pataphysique (sic), ovvero la scienza delle soluzioni immaginarie.
Marcel Schwob, invece, nel Livre de Monelle, pubblicato nel 1894, afferma che per immaginare una nuova arte, occorre infrangere quella precedente, non essendo rintracciabile nulla di nuovo, se non nelle forme.
Si tratta di una generazione di scrittori votata alla discontinuità rispetto alle conquiste ottenute dai predecessori, tuttavia la cui assenza avrebbe reso impossibile la comparsa in Francia degli scrittori simbolo della modernità nel romanzo, come Cocteau, Queneau o Robbe-Grillet.
Tornando a Schwob, secondo J. Bertrand e G. Purnelle – curatori delle edizioni più recenti delle opere dell’autore – la sua prosa si distacca fortemente dalla scientificità del romanzo naturalista, ma ne condivide la quête dell’osservazione dell’esistenza umana nei suoi dettagli. Il fine però è diverso: se nel caso del Naturalismo si cerca di svelarne i meccanismi, basandosi su teorie socio-antropologiche ben definite, la letteratura per Schwob non può far altro che ribadire il mistero e la bellezza di ogni vita umana attraverso la sua irriducibilità a forme semplificate.
L’opera che prenderemo ad esempio è Vies imaginaires, pubblicata nel 1896. In essa Schwob trascrive una serie di brevi biografie fra loro diverse, appartenenti a personaggi del passato di varia nazionalità (tra gli italiani, Cecco Angiolieri e Paolo Uccello), rivisitate con cura in un’ottica decisamente anacronistica, seguendo fantasia ed erudizione. Ciò non significa che le vite di Schwob siano totalmente astruse dalla realtà storica (anzi l’autore appare documentato nella consultazione di numerose fonti), ma semplicemente che lo stile formale e narrativo adottato, tipico della narrazione, si presentava come decisamente inconsueto per il genere biografico.
Schwob chiarisce alcuni suoi intenti nella prefazione all’opera, che osserveremo di seguito più in dettaglio.
Marcel Schwob, biografo e narratore
Lamentando una falla nella science historique, per cui i biografi hanno ricercato di sondare la psiche dei personaggi storici solo nella misura in cui certi avvenimenti influenzavano le proprie scelte su larga scala, Marcel Schwob si aspetta dall’arte del biografo che essa preveda il compimento di una scelta, in quanto non è la fedeltà alla realtà dei fatti che deve preoccupare il ricercatore, ma la capacità di attribuire dei tratti umani al caos individuale. Il giusto metodo consiste nello scegliere ciò che è unico nei possibili umani, espresso tramite una forma stilistica che sia particolare e adattata alla figura in esame.
I biografi hanno contemplato fra i loro soggetti solo le grandi personalità, convincendoci che fossero le uniche degne di essere indagate a fondo. Continua, perentoriamente, affermando che «l’art est étranger à ces considérations».¹
Schwob, attraverso questa piccola riforma della tradizione biografica, cerca di associarvi un ideale artistico del tutto nuovo, precursore degli studi sull’individuo nella letteratura e nella scienza (vale la pena ricordare che proprio in quegli anni stava nascendo la psicanalisi).
In particolare, lo scrittore afferma – con una certezza che hanno posseduto solo quei spiriti dalla sorte più complessa e misteriosa di tutte, perché hanno agito nelle epoche di transizione – che:
L’art est à l’opposé des idées générales, ne décrit que l’individuel, ne désire que l’unique. Il ne classe pas ; il déclasse.²
Daniele Laino
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