Jennifer Lawrence è stata, o forse è ancora, una ragazza prodigio. Con questa locuzione si potrebbe provare a riassumere alcune caratteristiche non così raramente, e nemmeno tanto comunemente, ricollegabili a un solo essere umano: doti recitative di conclamato buon livello, riconoscimento pubblico delle suddette tramite consegna di un Oscar, giovinezza.
È poi da registrarsi l’esistenza di un amore quanto mai diffuso e leale, originatosi da appassionata simpatia femminile e appassionato qualcos’altro maschile, e sviluppatosi in sale popolate da spettatori fischiettanti le quattro note della Ghiandaia Imitatrice.
Tutto ciò quasi impedisce di marcare troppo negativamente alcune piccole bizzarrie recitative di Jennifer – ad esempio una certa staticità della fascia oculo-sopracciliare. E qui, udito il vocio ammonitore che dichiara immeritata un’eventuale stroncatura, e avendolo trovato pienamente sensato, di buon grado si accetterà la tendenza generale.
Infondo, e tutto sommato, che Jennifer Lawrence sia tra le più brave attrici della sua generazione è nient’altro che una verità.
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Gli inizi di saga:
Jennifer Lawrence adolescente
In quanto adolescente, bionda e guanciosa, Jennifer Lawrence ha cominciato recitando – ovvio quanto giusto – la parte dell’adolescente. Ma in ambito cinematografico americano il termine “adolescente” ha implicazioni precise: gli stereotipi sono noti a tutti. Nemmeno nell’interpretare la splendida Mystica (“X-Men – L’inizio” di Matthew Vaughn – 2011), dipinta di blu e tutto il resto, Jennifer sfugge all’idiozia e ai risentimenti caratteristici della sedicenne da grande schermo.
Non stupisce allora che un sospiro di gioioso sollievo, destinato a tramutarsi in adorazione nel giro di qualche anno, abbia percorso il globo quando “Un gelido inverno” (Debra Granik – 2010) è giunto a mettere sotto nuovi riflettori la Lawrence, e quando, due anni dopo, il primo capitolo di Hunger Games è arrivato per sottolineare la novità.
Nel primo caso, la granitica forza di Ree, troppo giovane capofamiglia cocciuta e coraggiosa, racchiude in sé tutto il carisma necessario a tenere in piedi una pellicola dall’estetica particolarissima. Il grigio clima invernale fa da base e veste a tutto l’ambiente, imponendo agli uomini, per necessità, un carattere duro, essenzialità nel vivere, rispetto delle regole e dei legami. Quella stessa Jennifer che vedremo poi in “American Hustle” (David O. Russell – L’apparenza inganna – 2013), quella stessa donnina insopportabile dalle unghie appariscenti e i capelli attorcigliati in barcollanti torrioni lucenti, è qui immersa nel gelo, senza che nulla di lei, altrettanto gelida nell’agire, stoni o sbavi.
Cocciutaggine e coraggio sono anche i fondamenti di “Hunger Games” (Gary Ross – 2012), i cui tratteggi iniziali si avviano allo sviluppo che conosciamo tutti (appartenente a un filone battezzato “dystopian teen” e che trova i suoi precursori in autori come William Golding e Koushun Takami) proprio partendo dalla scelta di Katniss Everdeen, volontaria al posto della sorella per i Giochi di Capitol City.
E prendendo la rincorsa da questi ultimi due film, Jennifer Lawrence ha fatto il grande salto.
David O. Russell
A circa ventidue anni, le fattezze rosee di Jennifer subiscono un’inaspettata reinterpretazione da parte di David O. Russell che vi vede, senza sbagliare, la potenzialità per affiancare in quanto giovane donna il decisamente adulto Bradley Cooper.
Pellicola non malvagia ma ben lontana dall’essere sublime – o anche solo meritevole dell’improponibile numero di Oscar per cui ricevette una nomination – “Il lato positivo – Silver Linings Playbook” (2012) ha però a tutti gli effetti sbancato.
Durante la notte degli Oscar 2013, Jennifer Lawrence si avvicina al palcoscenico, inciampa, cade, ritira la statuetta e si assicura una carriera. Tutto grazie a David O. Russell che le ha cucito addosso un ruolo di un tipo preciso, atto a garantire al regista il monopolio sulla faccia eccentrica del poliedro-Jennifer. Sì, perché velatamente matta è nel 2012, ma ancora di più lo è nel 2013 in “American Hustle”, sempre di Russell (altro film piacevole, allegrotto, ben fatto, ma sorprendente molto poco), accanto a Christian Bale, Amy Adams e, di nuovo, Bradley Cooper.
Per la seconda volta è agitata, lunatica e coloratissima; per la seconda volta si ambienta perfettamente tra i colleghi più vecchi, risultando straordinaria in un ruolo che, per quanto tangente in alcuni aspetti al precedente, è però ben differenziato. Se è vero che il talento si acquisisce con gli anni, mentre contemporaneamente si impara a rendere duttili se stessi, è pure vero che in tutta la sua giovinezza Jennifer Lawrence è, nel passare da un copione all’altro, di un’agilità davvero ammirevole.
Bisogna poi aggiungere che la sicurezza con cui interpreta certi personaggi poco confortevoli denota una forza di carattere che non emerge, invece, nella recitazione di molti dei suoi coetanei, pur bravi. La Lawrence è energica, appassionata, visibilmente divertita al proprio lavoro, e tutto questo ha un peso sostanziale per la resa finale del personaggio. Rosalyn, ad esempio, è magari mezzo metro oltre la soglia della verosimiglianza, forse prevedibile in più punti e priva di un passato chiarissimo, ma ha una personalità così salda nella struttura e così solida nella sua benché minima evoluzione, da non suscitare dubbi né domande scettiche.
Gli ultimi capitoli
La saga che l’ha lanciata si è conclusa con l’uscita di “Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte II” (Francis Lawrence – 2015), il cui difetto principale – la diluizione che ha permesso a circa 400 pagine di diventare più di quattro ore di film – ha rischiato di trasformare in petulante e ingenua crocerossina la Katniss di grande impatto che si fa scorgere solo in poche, ben riuscite, scene.
La seconda saga a cui Jennifer è legata vedrà l’uscita del secondo capitolo nel 2016: “X-Men Apocalypse” (Bryan Singer).
Intanto anche David O. Russell propone il suo “Joy”, in uscita il 14 gennaio prossimo.
E Jennifer?
Jennifer Lawrence è davvero diventata grande, ora, e pensa alla regia…
Chiara Orefice