Il Free Cinema: la rivolta culturale inglese degli anni ’50

Dalla rivolta politica e culturale inglese degli anni Cinquanta nasce il Free cinema; un movimento cinematografico che ha contestato il cinema britannico dell’epoca e che si inserisce nel contesto internazionale del Nuovo cinema.

Nascita ed evoluzione del Free cinema

Nel febbraio del 1956, al National Film Theatre di Londra, è stato presentato il manifesto del gruppo in tre opere: O Dreamland (Lindsay Anderson); Together (Lorenza Mazzetti) e Momma Don’t Allow (Karel Reisz e Tony Richardson) e gli elementi che saranno di centrale importanza per il Free cinema diventano chiari: l’importanza dell’individuo e della quotidianità (calcando un po’ la strada che è stata precedentemente battuta dal Neorealismo italiano).

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Molti anni dopo Lindsay Anderson, regista inglese e teorico del movimento, affermerà che più che di un manifesto «si trattò soltanto di una comoda etichetta. Un’idea offerta ai giornalisti perché ci scrivessero sopra. Senza quel titolo declamatorio, credo onestamente che la stampa non ci avrebbe prestato alcuna attenzione è stata una sorta di confezione culturale ben riuscita»[1]. Dietro questa etichetta c’era un forte spirito di rinnovamento e anche un lavoro che un gruppo di giovani critici aveva cominciato già un bel po’ di anni prima.

Infatti, l’espressione Free cinema era stata coniata già nel 1951 da Alan Cooke sulla rivista Sequence[2]; per indicare tutti quei film che hanno come segno distintivo un «uso personale ed espressivo del mezzo»[3].

free cinema

Lindsay Anderson comincerà poi a ipotizzare per il cinema un ruolo di intervento per la comprensione del sociale, con l’auspicio di rivolgersi anche al pubblico popolare e negare qualsiasi forma di conformismo derivante dalla produzione commerciale.

Dopo l’esordio del ’56, quindi, dal 1959 i giovani autori del Free cinema pongono come soggetto privilegiato dei loro film proprio il contesto sociale e la quotidianità delle classi lavoratrici. Vengono scelti come scenari squallidi appartamenti popolari, strade, fabbriche, riformatori e una delle costanti di questo cinema è la presenza fra i protagonisti del giovane proletario escluso per il quale il percorso eversivo è quasi d’obbligo. La libertà individuale si può ottenere solo attraverso uno scontro aperto.

Tutto il Free cinema troverà le sue espressioni migliori, oltre che nella volontà di portare alla luce l’insoddisfazione crescente, in questo equilibrio tra realismo e sentimento, in questa capacità di riconoscere i valori ideali sotterranei che ancora sorreggono la vita della gente comune e il loro scontro con un mondo che a poco a poco tende a vanificarli. In questo senso appaiono ovvie le citazioni fatte a J. Ford, si sente il bisogno di ritornare al cuore della cultura collettiva.

Nel 1959 esce I giovani arrabbiati (Look Back in Anger) diretto da Tony Richardson, riduzione cinematografica dell’omonima commedia scritta da John Osborne. Grazie al finanziamento alla distribuzione della Warner Bros, Look Back in Anger è il primo lungometraggio appartenente al Free cinema a circolare nelle sale cinematografiche. Rispetto alla precedente produzione britannica, in questo film si nota una maggiore attenzione alle riprese dal vero (soprattutto negli esterni) e anticipa tutti gli elementi che saranno centrali nella successiva produzione del movimento.

Nel lungometraggio di esordio di Karel Reisz, Saturday night and Sunday morning (Sabato sera, domenica mattina – 1960), la struttura della narrazione perde la sua integrità razionale e si presenta come un agglomerato di fatti, gesti e sezioni di sequenze che sembrano isolate e legato solo dal senso cronologico. Ma è con Morgan, matto da legare (Morgan, a Suitable Case for Treatment – 1966) che Reisz realizza uno dei film più sperimentali del Free cinema, la libertà stilistica concessa al film è il riflesso del genio del protagonista: Morgan è un disadattato che non vuole inserirsi nella società ma a differenza degli altri outsiders del Free cinema non cerca lo scontro, richiudendosi nel proprio mondo irrazionale.

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A differenza della Nouvelle Vague francese il Free cinema non intende sperimentare apertamente sul piano delle forme (ciò però non si traduce in una carenza di produzione di elementi innovativi) ma si concentra soprattutto sul piano dei contenuti e il fatto che il protagonista di Morgan, a Suitable Case for Treatment preferisca non scontrarsi con la società che lo circonda può essere letto come un annuncio della futura crisi che attraverserà per il decennio successivo tutto il movimento.

Già dai primi anni 70 gli interessi dei produttori si stava spostando verso la Swinging London e come scrisse Anderson nel 1983:

«Noi credevamo di poter trovare un buon sostegno popolare da parte del pubblico britannico, oppure di riuscire a crearlo, per gettare le basi di una solida industria nazionale. O almeno che valesse la pena di tentare. Abbiamo avuto successo per diciotto mesi. Le nostre mete non sono state condivise, in parte perché la concezione americana del cinema come divertimento era troppo radicata, in parte perché, tra gli stessi inglesi, la resistenza al cambiamento e l’accettazione del severo conformismo sociale e artistico della classe media erano troppo marcate» [4].

Cira Pinto

Bibliografia:

·         P. Bertetto, Introduzione alla storia del cinema.

·         E. Martini, Storia del cinema inglese.

·         E. Martini, Free Cinema e dintorni.

[1] Walker 1974; trad. it. in Free Cinema e dintorni, 1991.
[2] La rivista Sequence era stata fondata nel 1946 a Oxford da John Boud e Peter Ericsson, e fin dal secondo numero può vantare tra i redattori la presenza di autori come Anderson, Penelope Houston e Gavin. Molto aggressiva nei confronti della fiacchezza e della letterarietà del cinema nazionale, sostiene la libertà espressiva e la creatività pura, la poesia di cineasti come Jean Vigo, Humphrey Jennings e John Ford. Trasferitasi a Londra nel 1948, chiude nel 1952, ma i suoi redattori continuano la loro battaglia sulle pagine di alcuni quotidiani e della rivista Sight and sound.
[3] Cooke 1951, Op. cit.
[4] E. Martini, Storia del cinema inglese