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Ferreri sulla scia di altri registi
Rappresentare il dramma dell’uomo moderno, solo e alienato, dimorante in un mondo che sembra non avere logica e senso alcuno, è sempre stato un tema molto caro al mondo artistico ed intellettuale, dove per artistico ci si riferisce anche al “recente” cinema. Proprio nella settima arte, come in altre arti, ognuno ha cercato di raccontare e spiegare questo dramma in un modo diverso, il cinema italiano a tal proposito ci dà molti esempi: Monicelli, Antonioni, Pasolini, sono solo alcuni dei nomi che hanno contribuito in tal senso. Tra questi grandi nomi rientra a pieno titolo il regista milanese Marco Ferreri, un regista che ha sempre portato avanti il suo modo di raccontare cinematograficamente la condizione dell’uomo calato nella società dei consumi senza mai venire dalla parte del pubblico, cioè senza mai dare tregua allo spettatore.
In Dillinger è morto, Ferreri rappresenta il dramma dell’uomo moderno senza fare uso di sensazionalismi, di sceneggiature ardite o di scene ultra grottesche o erotiche (che non mancano nella sua cinematografia); ciò che Ferreri fa è rappresentare la quotidianità di quest’uomo, i suoi gesti quasi ritualistici e l’uso rituale degli oggetti nella casa di un qualunque sconosciuto borghese italiano, concentrandosi su dettagli che normalmente sarebbero ignorati. Di fronte ad una scelta del genere, che trasforma il film in un quasi film muto, dominato essenzialmente dai rumori degli strumenti di comunicazione di massa, non servono sensazionalismi se il sensazionale sta nell’idea stessa che è alla base di questo film.
Noi viviamo come il protagonista del mio film, a contatto con gli oggetti. La nostra vita è una sorta di museo di oggetti inutili. La nevrosi si esprime soprattutto come feticismo dell’oggetto, intendendo con ciò non le mere cose inanimate ma anche i mezzi di informazione e comunicazione quali i dischi, i giornali e la TV.
L’attore protagonista del film che si fa interprete di quest’uomo è Michel Piccoli, che con Dillinger è morto diede inizio alla prima delle tante successive collaborazioni con Ferreri. Piccole apparizioni invece per Anita Pallenberg e Annie Girardot.
Dillinger è morto, la trama
Glauco (Michel Piccoli), disegnatore industriale di maschere antigas, rientra come al solito a casa durante una sera d’estate dove trova una cena ormai raffreddata e poco invitante; la moglie (Anita Pallenberg) è a letto per via di un’influenza. La casa è vuota ma piena d’oggetti d’ogni tipo (libri, tele, attrezzi per la cucine, oggetti accatastati nei mobili) la serata è calda e l’ingegnere s’aggira per le stanze senza uno scopo, così prima accende la televisione senza guardarla, poi proietta dei filmini amatoriali girati in Spagna con la moglie e una sua amica, immaginando di entrare nella proiezione, poi ascolta delle vecchie registrazioni finché, quando la fame insorge, comincia a prepararsi una ricca cena. Rovistando nei mobili di cucina alla ricerca degli ingredienti, trova un pacco fatto di vecchi giornali che avvolgono una pistola a tamburo arrugginita; uno di questi giornali è datato 23 luglio 1934 e reca la notizia dell’uccisione, il giorno precedente, del famoso gangster americano Dillinger. Prende la pistola e inizia a sistemarla, prima smontandola, poi la ricompone, infine la ripulisce e le dà un tocco colorato, non prima di aver fatto una visita alla cameriera (Annie Girardot).
Un linguaggio cinematografico fatto di immagini e cinismo
Dillinger è morto è il film che meglio rappresenta il cinema di Ferreri, in esso ritroviamo molti dei temi che egli tratta nel suo cinema: la presenza invasiva degli oggetti e il loro rapporto morboso con l’uomo, il cibo e la sua preparazione, la fuga impossibile dal mondo, l’ambiente claustrofobico, l’erotismo, la morte, il sesso. Un film che arriva nel 68, in piena contestazione dell’ordine costituito e dei valori della società borghese; l’intento però di Ferreri non è quello di servirsi del cinema per fare rivoluzione, dal momento che egli stesso riteneva che per fare la rivoluzione, bisognasse fare realmente la rivoluzione. Dunque si ritiene semplicemente un regista, senza essere didascalico e senza pretesa di diventare una figura rivoluzionaria. I suoi film sono brevi, e scivolano velocemente ma hanno molto da dire, e lo fanno soprattutto attraverso le immagini: la struttura narrativa non conta, tutto si racchiude in una singola immagine, potremmo dire in quasi un’istante, che sarà poi la svolta della storia. Di fatto il titolo del film, che all’apparenza non c’entra nulla con ciò che vediamo, si riferisce in realtà al ritrovamento della pistola, che preso singolarmente, dà la svolta alla storia rappresentata, sempre senza l’uso della parola.
Così in un contesto in cui l’immagine domina lo sviluppo del film, diventa importantissimo il lavoro della cinepresa. Ferreri qui segue incessantemente il protagonista, lo stringe in spazi angusti, utilizza il piano-sequenza, e intanto gli oggetti lo circondano, in quello che diventa uno dei tanti templi del rituale consumistico borghese. Un film che all’apparenza è molto sciatto, ma in realtà attentamente studiato, e che si riallaccia al tema dell’alienazione che altri registi trattavano nello stesso periodo. La sensazione che a volte si ha però, è che Ferreri a volte finisca in secondo piano; eppure basterebbe guardare qualche film della sua filmografia per capire quanto quest’artista sia riuscito a dare al cinema italiano in un linguaggio così semplice e allo stesso tempo innovativo, con uno sguardo cinico e a tratti ironico, verso una società in tumulto e verso l’uomo di questa società.
Roberto Carli
Fonti
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- http://www.treccani.it/enciclopedia/dillinger-e-morto_(Enciclopedia-del-Cinema)/