Captain Beefheart, al secolo Donal Van Vliet, è stato senz’altro una delle personalità più importanti ed originali nella storia della musica e dell’arte tutta.
Cowboy figlio del deserto, nato, cresciuto e levigato nel Mojave, il Capitano inventò e plasmò lungo tutto l’arco della sua carriera un nuovo linguaggio artistico, notevole non solo per la sua rilevanza espressiva, la sua geniale creatività divergente e la sua ricchezza di sfumature, ma soprattutto per l’influenza che esercitò e che continua ancora ad oggi, indirettamente, ad esercitare.
Fin dal suo esordio discografico, avvenuto nel 1967 con l’LP Safe as milk, Captain Beefheart traccia una strada, che si discosta da quella della canonica musica armonica in forma, struttura e, sopratutto, concetto; questa stessa strada da quel momento verrà seguita da tantissimi altri artisti, che faranno loro e reinterpreteranno i numerosi spunti offerti da Van Vliet in tutta la sua produzione.
Dal blues del delta a Safe as milk
Donal Van Vliet rappresenta, insieme all’amico Frank Zappa, l’emblema della freak generation, l’effige di quella frangia artistica borderline prepotentemente contrapposta alla cultura mainstream. La sua arte è conseguenza diretta della sua eccentrica e poliedrica personalità. Non si limitò a scrivere musica, ma fu anche pittore avanguardista.
Nella sua arte, sia musicale che pittorica, gli spunti concreti e le suggestioni emotive vengono assorbite e rielaborate in un modo nuovo. L’innovazione risiede nell’approccio concettuale. Tutto ciò che segue è conseguenza diretta: a Van Vliet non interessa comporre musica armonica o piacevole. Parte dal presupposto che ciò è già stato fatto. Beefheart ambisce a proporre qualcosa di diverso, una musica che distrugga gli stereotipi attraverso un processo di decostruzione.
Il punto di partenza è il blues del del delta; il punto di arrivo è una musica totalmente libera da dogmi stilistici e da qualsiasi regola. Captain Beefheart fagocita un genere di musica primordiale e profondamente istintuale. Nel processo di assimilazione, lo arricchisce di suggestioni artisticamente svincolate, come fiabe, musica folkloristica, surrealismo, teatro e musica sinfonica. Quando lo rigurgita, il blues del delta diventa un linguaggio totalmente diverso, destrutturato, deformato come un’allucinazione e scatenato come il free jazz di Ornette Coleman.
Van Vliet riesce nell’impresa tutta mentale di tornare bambino: il suo è l’approccio di chi vive le situazione con lo stupore da prima volta. L’idea quindi non viene confezionata nel formato di canzone, ma presentata nella sua forma più nuda, e per questo, più genuina. Il suo modo di comporre è più vicino alla pittura che non alla musica. Trattandola come un arte figurativa, egli è in grado di svilupparla in più dimensioni spaziali. Il risultato finale sarà la poliritmia e la completa destrutturazione di Trout Mask Replica: il cubismo in musica.
Safe as milk, il debutto di Captain Beefheart & His Magic Band
È il 1966 quando la A&M Records, stuzzicata dall’ascolto di due singoli registrati precedentemente, propone a Van Vliet di registrare un album. Così, dopo qualche mese, Captain Beefheart si presenta con la sua Magic Band, composta dagli atipici chitarristi Ry Cooder e Snouffer, supportati dalla robusta sezione ritmica di John “Drumbo” French e Jerry Handley, portando del materiale fortemente influenzato dal delta blues e dall’R&B.
Il lavoro non piacque affatto ai produttori che, legati com’erano alle esigenze di mercato, lo bocciarono, ritenendolo non commerciabile. Il capitano fu allora scritturato dalla Buddah Records, e l’album fu sugli scaffali il 1 aprile del 1967.
I 12 pezzi che compongono la tracklist di Safe as milk si dipanano lungo sentieri di linguaggi musicali diversi: si passa dal blues/country di Sure ‘Nuff ‘n Yes I Do e Call me fino ad arrivare ai pezzi più sperimentali come Electricity, il capolavoro nel capolavoro, e Dropout boogie, passando anche per ballate R&B come I’m glad, Where There’s Woman e Autumn’s Child, dall’incedere quasi psichedelico.
Van Vliet è letteralmente una bestia scatenata nel cantare le sue liriche allegoriche e ironiche: il suo timbro è ora ruvido ed abrasivo, a volte quasi siliceo, urlato e volutamente rumorista, in pezzi come Electricity e dropout boogie, per farsi tenue e struggente in I’m glad, sempre in funzione dell’interpretazione più che dell’estetica, più come un attore che come un cantante nella sua accezione più tipica.
La musica è un tessuto intrecciato ed efficace, sul quale Van Vliet non fa fatica però a primeggiare, fatto di chitarre sgangherate, slides dei quali si sente la ruggine, un basso cavalcante, che spesso e volentieri emerge sugli altri strumenti, e percussioni essenziali. A questi in diverse tracce si aggiungono strumenti folkloristici, come l’armonica, strumento principe del blues, e sperimentali, come il theremin.
Il disco si apre con Van Vliet che canta la frase
Well I was born in the desert
Proprio il deserto è la chiave di lettura perfetta per comprendere l’idea che c’è dietro il disco. Quel deserto che è un ambiente intimo ed ostile; quel deserto in cui Van Vliet è nato e cresciuto; quel deserto in cui Beefheart è diventato l’artista/eremita che impara a conoscersi più intimamente e ad ascoltarsi. In questo modo, riesce a raccogliere le suggestioni e a metterle a nudo, genuine come il latte (Safe as milk). Se la musica commerciale processa le idee, rendendole digeribili per il grande pubblico, Beefheart fa l’esatto opposto. E Safe as milk è il suo primo passo per distruggerla, parodiandola.
Lorenzo Di Meglio