“Il caso Spotlight” di Tom McCarthy è il film più premiato del 2016, a oggi, e chissà che non vinca anche agli Oscar raggiungendo la cima del piedistallo dove vento e raffiche di critica, pomodori, e rose e grida di giubilo, arriveranno senza troppi ostacoli, copiosi e travolgenti, almeno per qualche mese. Per ora, in Italia lo si guarda circospetti e si tende ad andare a vedere altro.
Cos’è il caso Spotlight
Il titolo “Il caso Spotlight” (in orginale è più propriamente solo “Spotlight”, trattandosi del nome della sezione redazionale più del caso in sé) si riferisce allo scandalo che scoppiò tra il 2001 e il 2002 nella città di Boston: una squadra di giornalisti d’inchiesta del quotidiano locale, “The Boston Globe”, indagò su una serie di atti di pedofilia i cui colpevoli, tutti preti delle chiese cittadine, se l’erano sempre cavata con un trasferimento in un’altra città: di ciò venne accusato l’arcivescovo Bernard Francis Law.
Il richiamo naturalmente è a quello che molti hanno definito “cinema vecchio stampo”, alla Nuova Hollywood per intendersi, o meglio, più precisamente, allo stile pulito e coinvolgente che fece la gloria di “Tutti gli uomini del presidente” di Pakula (1976). Ne “Il caso Spotlight”, ancora di più che nell’illustre predecessore, a essere protagonista è il lavoro redazionale, la documentazione, gli elenchi, gli archivi e le tazze di caffè.
E ancora, quando lo sguardo si apre, si tratta dello stesso medesimo lavoro, ma riportato su più ampia scala nelle biblioteche e sui gradini d’ingresso di casette anonime. È così che Boston si riduce a un paesino dove tutti sanno e nessuno dice, dove tutto è lì, appena sotto il tappeto che nessuno ha voglia di alzare.
Lo stile giornalistico
Niente è eclatante, nulla urla e nulla strepita: dritto filato verso una soluzione che l’urgenza e la gravità del problema invocano con impazienza, “Il caso Spotlight” non si arena. Le poche anse che indugia a creare sono quelle che danno corpo ai giornalisti e all’avvocato i quali, seppur appena abbozzati da pochi cenni significativi, sono notevolmente veri (oltre a Michael Keaton e Liev Schreiber, l’interpretazione di Stanley Tucci è toccante, Mark Ruffalo e Rachel McAdams sono davvero in parte).
È una regia che diventa quasi impercettibile nell’essenzialità di montaggi veloci e piani sequenza; un bel ritmo scandisce l’indagine, nella sobrietà assoluta, così come lo sono la recitazione e la sceneggiatura.
Nonostante ciò, non si può certo dire che “Il caso Spotlight” sia asettico: il giudizio morale c’è, c’è eccome, così come il disgusto, la tristezza, anche un’accusa al giornalismo distratto, e una più velata ipotesi che la castità imposta provochi un danno psichiatrico di larga scala. Ma tutto questo è, in perfetta coerenza, esposto con calma, nei tempi giusti e chiaramente, senza verbosità annacquate.
“Il caso Spotlight” si trova, dunque, in equilibrio al centro: né un’esposizione dei fatti nuda, cruda e impersonale; né un melodramma pieno di lacrime. C’è una certa dose di eleganza, in questo…
Chiara Orefice