Nel Medioevo la letteratura delinea una forte condanna dei personaggi avari. Il denaro, quello che il medievista Jacques le Goff chiamò “Lo sterco del diavolo“, acquista un’importanza rilevante solo attorno all’XI secolo con lo sviluppo del commercio. Proprio l’uso del denaro era visto come una minaccia dagli uomini di chiesa, perché aveva permesso all’avarizia di svilupparsi nell’animo dei fedeli e di mettere a repentaglio il modello di pace e di fratellanza tipico del crisitanesimo delle origini. Non a caso, nel Vangelo di Matteo si legge che:
È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli
A questo bisogna aggiungere il fatto che il Medioevo vede la nascita del fenomeno dell’usura, il prestito illegale di un’alta somma di denaro ad un debitore il quale, impossibilitato a risarcirla, è costretto a subire ricatti dal creditore che gli sottrae ogni bene.
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Jacopone da Todi: l’avarizia è un “verme che non posa“
Il punto di partenza per il nostro discorso riguardante i personaggi avari nel Medioevo è rappresentato da Jacopone da Todi, importante poeta italiano del duecento e beato della chiesa cattolica. Figlio di genitori nobili e abituato alla vita mondana, alla morte della moglie decide di vendere tutti i suoi beni e di prendere i voti religiosi.
Dopo essersi sottoposto a dieci anni di penitenza, nel 1278 entra nell’ordine dei francescani spirituali, quelli più vicini all’insegnamento di Francesco d’Assisi.
La sua opera più importante sono le Laudi, una raccolta di circa 90 componimenti che dovevano essere destinati al canto durante la liturgia. Sono contraddistinte da una severa condanna della materialità a cui l’uomo si lascia andare e il poeta beato non trascura di certo il peccato dell’avarizia.
Due sono le laudi in cui tale peccato viene citato: nella cinquantanovesima Jacopone ammonisce il fedele sul fatto che la propria anima è destinata all’inferno se non si libera dai peccati. Così, quando arriva a parlare dell’avarizia, ecco come la definisce:
[…]
L’avarizia pensosa ècce verme che non posa;
tutta la mente s’ha rosa en tante cose l’ha occupata(1)[…]
Opposta a questa concezione c’è la trentaseiesima lauda, in cui vi è un’esaltazione della vita vissuta in povertà, vista come unica chiave d’accesso per il paradiso.
O amor de povertate,
renno de tranquillitate!
Povertat’è via secura,
non n’à lite né rancura,
de latrun’ non n’à pagura
né de nulla tempestate.[…]
Povertat’è null’avere
e nulla cosa poi volere
e onne cosa possedere
en spirito de libertade.(2)
I personaggi avari di Dante
L’avarizia non poteva passare di certo inosservata neanche a Dante Alighieri. Nella cantica dell’Inferno il poeta fiorentino colloca i personaggi avari nel quarto cerchio, assieme ad un altro gruppo di peccatori legati al denaro: i prodighi, coloro che sperperarono i propri denari in futilità. La pena a cui sono sottoposti è descritta nel settimo canto:
[…]
Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: “Perché tieni?” e “Perché burli?”.Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;[…]
I dannati sono costretti, divisi in due schiere opposte, a percorerre un semicerchio spingendo un enorme masso con i propri petti e arrivando a scontrarsi tra di loro, rinfacciando l’avarizia degli uni ( “Perché tieni?”) e la mania spendacciona degli altri (“Perchè burli?”).
Quello che il Dante protagonista nota è che ci sono più anime lì che in ogni altro cerchio e che si trattino soprattutto di uomini di chiesa, proprio quei uomini che condannavano l’eccessivo attaccamento al denaro. Virgilio gli fa notare questo particolare, distinguendo le due diverse schiere dei personaggi avari e di quelli prodighi.
[…]
Ed elli a me: “Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni.In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.[…]
Dante dedica un canto anche alla già accennata usura, il diciasettesimo. I personaggi avari colpevoli di usura vengono collocati nel terzo girone del settimo cerchio, quello dei violenti.
Il loro peccato è talmente immondo che viene addirittura paragonato ad una violenza contro lo stesso Dio. Infatti gli usurai non si sono arricchiti con sacrificio e fatica, ma rubando il denaro altrui. La pena a cui sono sottoposti è tremenda: intrappolati nella sabbia ardente, vengono colpiti da una pioggia di fuoco e si distinguono per portare al collo un’enorme borsa (l‘iconografia medievale raffigurava gli usurai con questa immagine), emblema della loro colpa: come in vita la quantità delle ricchezze sottratte agli altri fu enorme, così il loro peccato è pesante da costringerli a stare seduti e a soffrire la propria colpa. Dante è talmente inorridito dagli usurai che li descrive con una metafora animalesca:
[…]
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.[…]
Boccaccio. L’avarizia del mercante
Lo sviluppo dei commerci vede la comparsa in scena di una figura importante per il medioevo, quella del mercante. Questi però era stato visto con disprezzo dagli uomini di chiesa, perché speculava su una cosa donata da Dio agli uomini: il tempo.
Il mercante lo usa per organizzare i propri commerci e calcola quanto possa incidere sui propri guadagni. Eppure proprio questa figura è importante per lo sviluppo delle realtà cittadine, poiché finanzia la costruzione di cattedrali, edifici e altre strutture.
Nella letteratura italiana il personaggio chiave che rivaluta questa figura è quella di Giovanni Boccaccio. Egli è il primo a vedere l’utilità e l’entusiasmo di questa figura, ma il fatto che abbia a cuore i propri interessi e non quelli della comunità lo portano a sviluppare l’avarizia. Proprio un mercante è protagonista di una delle novelle del Decameron: Erminio de’ Grimaldi. La sua storia viene descritta nell’ottava novella della prima giornata.
[…]
Fu adunque in Genova, buon tempo è passato, un gentile uomo chiamato messere Ermino de’ Grimaldi, il quale, per quello che da tutti era creduto, di grandissime possessioni e di denari di gran lunga trapassava la ricchezza d’ogni altro ricchissimo cittadino che allora si sapesse in Italia. E sì come egli di ricchezza ogni altro avanzava che italico fosse, così d’avarizia e di miseria ogni altro misero e avaro che al mondo fosse soperchiava oltre misura: per ciò che non solamente in onorare altrui teneva la borsa stretta, ma nelle cose oportune alla sua propria persona, contra il general costume de’ genovesi che usi sono di nobilemente vestire, sosteneva egli per non ispendere difetti grandissimi, e similmente nel mangiare e nel bere. Per la qual cosa, e meritamente, gli era de’ Grimaldi caduto il sopranome e solamente messere Ermino Avarizia era da tutti chiamato. […]
Da questa descrizione si capisce benissimo come Erminio ricalchi la figura perfetta dell’avaro: un uomo ossessionato dall’accumulare e dal risparmiare e non soltanto in fatto di denaro. A fargli da contraltare arriva però il gentiluomo Gugliemo Borsiere il quale, venuto a sapere dell’avarizia di Erminio, lo va a trovare nella sua abitazione. Il ricco mercante gli mostra la sua nuova casa e gli chiede:
“Deh, messer Guiglielmo, voi che avete e vedute e udite molte cose, saprestemi voi insegnare cosa alcuna che mai più non fosse stata veduta, la quale io potessi far dipignere nella sala di questa mia casa?”
E la risposta che riceve, lo lascia spiazzato.
“Fateci dipignere la Cortesia”.
La novella finisce con Erminio che si rende conto dell’atteggiamento sbagliato che aveva avuto fino a quel momento e decide di diventare una persona generosa e amata dai tutti i cittadini di Genova.
Con questa novella anche il Boccaccio condanna l’avarizia, ma lo fa (come si è già detto) tentando di rivalutare i mercanti in una chiave quasi positiva: da personaggi avari, avidi ed egocentrici ad elementi fondamentali per la società. Una dimostrazione che, se si vuole, dall’avarizia si può “guarire”.
Ciro Gianluigi Barbato
Note
(1) “L’avarizia preoccupante, questo verme che non sta fermo;/tutta la mente tormenta e per tante preoccupazioni l’ha riempita”
(2) “Oh amore di povertà, /regno di tranquillità!/Povertà è la strada sicura,/non ha liti né rancori,/di ladri non si ha paura/né di alcuna tempesta […] Povertà significa avere nulla/ e nessuna cosa desiderare poi/ e ogni cosa possedere/ in spirito di libertà.