Il 6 maggio 2013 Giulio Andreotti è morto. Il 28 novembre dello stesso anno, esce “La mafia uccide solo d’estate” di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, che per locandina ha la foto di un bimbetto travestito, appunto, da Giulio Andreotti.
Ben prima che tutto ciò accadesse, nel 2008, Paolo Sorrentino, maestro dei protagonisti “complicati”, dedica al personaggio in questione il suo quarto lungometraggio: “Il Divo”.
L’ironia aperta accusa: Pif
La carriera di Pif è giocoliera: passa diverse fasi e torna su se stessa, tra Iene, “Il Testimone” e la regia. Ma, a chi ne segue le gesta, pare quantomeno una grave distrazione non notare una ferrea coerenza del suo lavoro. In breve, Pif è attivo contro la mafia. La sua storia di palermitano cresciuto negli anni ’70 e ’80 emerge ora in un accenno passeggero, ora in un servizio su Addio Pizzo, ora nel suo debutto alla regia di “La mafia uccide solo d’estate”.
Il protagonista, Arturo, è un piccolo fanboy ossessionato dalla saggia e paterna figura di Giulio Andreotti, a cui dedica album di fotografie e appassionati temi di scuola. Ed è anche contemporaneamente spettatore passivo e stupito degli omicidi di mafia – da quello di Boris Giuliano a quello di Rocco Chinnici – che scandiscono e influenzano le tappe più importanti della sua vita.
L’amore per Giulio Andreotti è una classica ironia dello straniamento: attraverso gli occhi disinibiti e ingenui dell’Arturo ragazzino, Pif delinea una presa di coscienza che divide nettamente l’infanzia dall’età adulta, e non solo del piccolo protagonista – che passa dall’adorare candidamente il Presidente del Consiglio al constatare come fatto risaputo che Salvo Lima ha qualche simpatia per la mafia – ma di Palermo tutta.
In città avvenne un evento storico. I palermitani scoprirono che esiste la mafia, e glielo fecero scoprire i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che istruirono il Maxiprocesso a Cosa Nostra.
Fatto sta che Pif è limpido e diretto. Non ha mai nascosto la sua avversione per il Giulio Andreotti “colluso con la mafia fino al 1980”, né si preoccupa di mostrarne una caricatura sotto le sembianze di un bambino travestito per una festa di Carnevale, o di farne il simbolo degli occhi chiusi e delle orecchie tappate che hanno permesso al “cancro Cosa Nostra” di prosperare; a tutto questo mescolando poi un sorriso amaro che i toni naïfs richiamano, e un amore intenso e malinconico per la sua città.
Giulio Andreotti in equilibrio: Paolo Sorrentino
Probabilmente la chiave per costringere l’Andreotti di Sorrentino a dischiudersi è il monologo confesso-non-confesso che il Divo indirizza alla moglie e concede agli spettatori, seduto sotto luci da palcoscenico immaginarie. Senza ammettere quel tantino di troppo, senza nascondere il necessario, ma in equilibrio tra lettera d’amore e dichiarazione di colpevolezza, in equilibrio sulla voce di Toni Servillo, che lo interpreta, e in equilibrio sul ricordo degli occhi pieni della moglie e delle vittime delle stragi, dice:
Roberto, Michele, Giorgio, Carlo Alberto, Aldo, per vocazione o per necessità, ma tutti irriducibili amanti della verità, tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta e invece è la fine del mondo! Noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta! Abbiamo un mandato noi, un mandato divino! Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch’io.
Giocando con fasci d’ombra che ne intagliano le rughe, facendo passetti cauti laddove immagini di repertorio e aforismi verificati non gli concedevano di lasciare ad altri ogni responsabilità, Paolo Sorrentino tratta quasi con divertimento il suo Giulio Andreotti, nella sua caratteristica regia che disegna contesti da “sindome dell’epoca d’oro”, che non racconta la linearità dei eventi e delle prove provate, ma che scava dove la luce non arriva.
L’intento evidente del regista è cercare, al di là dell’immagine pubblica, la magia nascosta nella schiena curva e nella lingua affilata di un personaggio di tal calibro, lì aleggiante in corridoi lunghi e lucidi. A Sorrentino non importa insomma cosa sia successo, non vuole rivelare ad ogni costo. Non che non sia importante, sembra dire, ma non è il nostro compito qui: “Il Divo” narra del Divo, del mito, e dell’uomo, dell’emicrania, e di quel che c’è in mezzo.
Chiara Orefice