Chris Kyle, originario del Texas, è cresciuto con la convinzione che al mondo esistano tre tipi di uomini: i lupi, le pecore e i cani da pastore. Questi ultimi proteggono le pecore dai lupi, non attaccano ma difendono, senza esclusione di colpi. Così Chris, quando vede in televisione l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 capisce di appartenere alla terza categoria, e decide di arruolarsi nel corpo speciale Navy SEALS. Da lì inizia la sua guerra: in Iraq, come “Leggenda” per la sua infallibile mira, e tra le mura domestiche, incapace di ritrovare la pace anche dove regna davvero, tra le braccia della sua famiglia.
American Sniper racconta la parabola di un uomo eletto eroe nazionale, una macchina da guerra che non lascia scampo a chiunque si frapponga tra il grilletto e la vita di un compagno Marines, un uomo con la mente costantemente in guerra, che trova nel deserto iracheno la normalità di quella che non può essere definita ‘vita’.
Un film campione di incassi, tanto negli USA quanto in Italia, con 5,7 milioni di euro durante il suo primo week end nelle sale italiane. Un film complesso e moralmente ambiguo che ha spaccato la critica: capolavoro o americanata?
In effetti era facile sconfinare nella banalità dell’estremo patriottismo e machismo che contraddistingue ogni pellicola americana quando si parla di guerra. Gli americani sono uomini di valore, buoni di cuore, esenti da qualsiasi colpa di sangue perchè chiamati in una guerra che non hanno realmente voluto, sono brave persone solo per il fatto di essere americani. Amano il loro paese, lo difendono, ogni cittadino ama gli USA perchè è “il più bel paese del mondo”. Chi lo attacca è Male, ed è giusto che venga estirpato. Clint Eastwood ha abilmente aggirato l’ostacolo, senza riuscire però a non caderci in pieno.
American Sniper si mantiene lontano dall’essere un film propagandistico col futile scopo di celebrare un’ideologia nazionalista. Stiamo pur sempre parlando di un regista che è riuscito a raccontare una battaglia (Iwo Jima) della seconda guerra mondiale da entrambi i punti di vista, quindi bisogna aggirarsi con calma quando si azzardano semplificazioni inappropriate. Eastwood si esenta da giudizi di valore: la storia è narrata attraverso l’occhio di un cecchino che vede la vita dal suo mirino. Un uomo che alla domanda postagli dallo psicologo “in missione sei stato costretto a fare cose che avresti preferito non fare?” risponde risoluto: no. Kyle non si è mai pentito di ciò che ha dovuto fare in guerra, il suo unico tormento è quello di non poterlo fare ancora. Non è tormentato dalle 255 vittime dei suoi spari (160 confermate dal Pentagono) ma da tutti quelli che avrebbe potuto uccidere anzichè restare nella pace delle mura domestiche, tutti coloro che non ha potuto uccidere per salvare i suoi fratelli Marines. Il film si mantiene lontano da giudizi di valore perchè non guarda una situazione nel suo insieme, ma il punto di vista di un uomo dedito alla guerra e ossessionato da questa. Il tutto contornato da una narrazione priva di virtuosismi e sontuosi artifici, scandita da un gong di sottofondo che rintocca ad ogni passo che Chris muove avvicinandosi alla guerra, sempre più lontano dalla sua famiglia.
Eastwood non ha fatto un’americanata quando ha raccontato la vita di Chris, perchè l’ha descritta, senza critiche moraliste. Nulla di contro a un uomo che uccide anche donne e bambini sulla sua strada, perchè quello è lo scopo della sua esistenza: difendere il proprio paese. Uccidere 160 uomini, quindi, è un vanto? O non lo è? In questo cadeva il tranello.
Il tranello che neanche il regista di Mystic River è riuscito ad evitare: quello di inneggiare ad eroe un uomo che nella sua stessa biografia definiva divertente la sua abilità nell’uccidere i nemici. L’americanata sta nel considerare eroe un assassino solo perchè ha ucciso sotto lo stendardo degli Stati Uniti d’America. L’americanata è per un occhio lontano da quello del popolo a stelle e strisce, perchè è per loro una filosofia di vita. Eastwood ha sì evitato di esprimere giudizi di valore, ma ha dimenticato di considerare che il giudizio stava proprio nell’eleggere portatore della bandiera statunitense un uomo ossessionato dalla guerra, perfetto incarnante dello stile di vita a cui ambisce (o ci fanno credere che ambisca?) ogni cittadino americano.
Un patriottismo ben bilanciato sul versante umano, che racconta di un uomo che la guerra se la porta dentro, ma pur sempre dimenticando che l’uomo in questione era soprattutto un sanguinario, che poteva tranquillamente trovarsi dall’altra parte del conflitto.
Camilla Ruffo