Spesso la bioetica viene ridotta alle grandi questioni, come la fecondazione artificiale. In realtà si tratta di una disciplina filosofica vera e propria.
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Alla ricerca di una definizione
Cos’è la bioetica? Nell’edizione del 1978 della Encyclopedia of Bioethics, Warren Reich la definiva come “lo studio sistematico della condotta umana, nell’ambito delle scienze della vita e della salute, esaminata alla luce di valori e di principi morali”. Era quindi una definizione ristretta alla filosofia morale, solo a partire dall’edizione del 1995 abbiamo avuto un aumento del perimetro del biopensiero:
lo studio sistematico delle dimensioni morali – inclusa la visione morale, le decisioni, la condotta, le linee-guida, ecc. – delle scienze della vita e della salute, con l’impiego di una varietà di metodologie etiche in una impostazione interdisciplinare.
Grazie a questa più ampia definizione, il biopensiero è riuscito a dare un contributo fondamentale al confronto tra scienza filosofia, fornendo a quest’ultima un nuovo senso.
Una materia disciplinare
La bioetica non si configura come disciplina a sé ma come una “materia disciplinare”, per sua definizione plurale. Quello bioetico non può essere un pensiero univoco sia per le diverse etiche di riferimento, sia per i diversi paradigmi di approccio. Nel concreto, possiamo individuare tre livelli di indagine:
1 – la formulazione di giudizi morali sui casi concreti.
2 – la riflessione sociale sui temi etici.
3 – la domanda antropologica sulla “buona vita”.
Un percorso educativo
Non ha torto chi dice che se non ti occupi di bioetica, prima o poi sarà la bioetica ad occuparsi di te. I temi bioetici hanno infatti assunto ormai una tale importanza da interessare la vita delle persone nel quotidiano. Studiare bioetica dovrebbe quindi aiutare l’individuo ad acquisire una competenza tale in grado di permettergli di avere una visione più chiara possibile. In particolare, il cittadino dovrebbe imparare a “saper conoscere”, “saper giudicare”, “saper scegliere”.
La bioetica come studio della complessità
La definizione stessa di bioetica indica quindi il suo carattere interdisciplinare. È particolarmente utile applicare al biopensiero la riflessione filosofica kantiana. Nelle tre critiche, il grande filosofo aveva cercato la risposta di tre fondamentali quesiti:
1 – Cosa posso sapere? (Critica della ragion pura)
2 – Cosa debbo fare? (Critica della ragion pratica)
3 – Cosa mi è lecito sperare? (Critica del giudizio)
Il criticismo kantiano applicato al biopensiero
Se, nella prima Critica, Kant era giunto all’inconoscibilità della cosa in sé e alla conclusione che di noi e del nostro destino non possiamo sapere nulla di certo, nella seconda fondò l’agire morale sui postulati (ancorchè inconoscibili) di Dio e dell’anima, con la felicità come fine ultimo del dovere morale. Nella Critica del giudizio, invece, Kant si mise alla ricerca di una speranza razionale che consentisse di sfuggire al cinismo, scorgendo all’orizzonte un senso ultimo in luogo dell’assurdo.
In particolare, nella riflessione bioetica si possono coniugare le domande kantiane della scienza e dell’etica, rispettivamente: “cosa posso sapere?”, “che cosa devo fare?”. Fuse insieme queste due domande in una dimensione etico-riflessiva, chi si occupa di bioetica si troverà sempre davanti al dilemma: “cosa devo – o non devo fare – del mio sapere?”. La filosofia kantiana applicata alla bioetica, ci permette così di sfatare subito il fraintendimento di coloro che interpretano le possibilità offerte dal progresso tecnologico come un “obbligo”. Come se la tecnica non fosse di per sé neutra, e dovesse svilupparsi a prescindere da qualsiasi considerazione etica.
Chi decide in materia di bioetica?
Un altro aspetto fondamentale della bioetica – sempre più presente nei dibattiti degli ultimi anni – è il processo decisionale riguardo alle grandi questioni, come l’eutanasia e la fecondazione artificiale.
In molti ambienti si sente ripetere spesso che le decisioni andrebbero demandate agli scienziati in quanto “tecnici” ed esperti del rispettivo settore. Anche nella ricerca, quindi, dovrebbero essere medici e scienziati a decidere “quando fermarsi”.
Si tratta di una visione sottilmente antidemocratica che cerca di mettere surrettiziamente da parte – e senza dibattito – lo stato di diritto, conferendo agli scienziati uno statuto speciale – per nulla richiesto dalla maggioranza di essi – che li ponga al di sopra delle leggi. Il tutto a causa di una interpretazione della scienza che affida a quest’ultima competenze e responsabilità che essa non può avere. Come insegnato da Max Weber, infatti, la scienza non può dirci “cosa dobbiamo fare” ma solo “cosa possiamo fare”.
Ciò vuol dire che non necessariamente uno scienziato debba essere più illuminato dell’uomo della strada riguardo le conseguenze sociali di una determinata innovazione tecnica, perché non necessariamente (come del resto, purtroppo, il politico) lo scienziato è anche un filosofo. Né, in ogni caso, la riflessione filosofica può sollevarci dalla responsabilità di decidere del nostro futuro.
Ettore Barra