Giuniano Maio, letterato napoletano del ‘400, ha trattato nel De maiestate delle virtù necessarie ad un principe per superare le avversità della fortuna.
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La “franchezza de core”
Per “franchezza”, Giuniano Maio intende il coraggio. Qualità che, come al solito, non esita ad attribuire a Ferrante in modo straordinario. L’esempio conclusivo del sesto capitolo del De maiestate è, infatti, un «intrepido e meraviglioso gesto di tanta franchezza de animo che forsi a pochi sarà credibile» (Giuniano Maio, De maiestate a cura di Franco Gaeta, Bologna 1956, p. 78). Si tratta di un episodio che sarebbe avvenuto durante il terremoto del 1456. Ferrante, incurante delle scosse, avrebbe proseguito la preghiera, mentre tutti gli altri fuggivano e anche il sacerdote abbandonava l’altare. Ferrante si mostrò così coraggioso da non mostrare alcuna paura, non solo nel comportamento ma anche nelle espressioni facciali. La franchezza è quindi una virtù che impone di
non estimare né de li laboriosi affanni la gravezza, né sbegottirese de pericoli de povertà né di morte né da qualunca minaccio de la temeraria fortuna (p. 51).
La morte gloriosa nel De maiestate
Ci sono altri due temi strettamente legati alla virtù della franchezza e che ricorrono spesso nel De maiestate: la gloria e la morte onorata. Il magnanimo, infatti, se da una parte non deve essere vanaglorioso e superbo, dall’altra deve cercare di conseguire con le sue imprese «bona fama e glorioso nome da omini da bene» (p. 52). La ricerca della gloria, come inevitabile effetto delle grande imprese, comporta anche il disprezzo della morte, che deve essere accettata, anzi ricercata, purchè «di gloria sia vestita» (p. 53). Maio rincara la dose con due citazioni di Seneca in cui si legge:
Non è gran cosa lo vivere, ma grande e laudabile cosa è la onorata morte, perché lo vivere è commune a tutti li omini, ma gagliardamente morire è più che de omo (p. 55).
Secondo Maio, di questo disprezzo del pericolo, Ferrante avrebbe dato prova in occasione della decisiva battaglia di Troia del 1462. Si tratta di un altro esempio di sconfitta della fortuna per mezzo della virtù, infatti l’umanista scrive
Alora fe’ pugna la virtù con la fortuna, a la quale la vittoria debitrice essendo, favorita da iustizia et equitate. Allora fu rendita la debita palma a la magnanima maiestate, la fama de la quale fu unione e patto con la vittoria (p. 59).
La “constanza de non inflarese”
Un’altra virtù importante nella lotta alla fortuna è la costanza che viene trattata in due sintagmi diversi. La prima è la “constanza de la maiestate de non inflarese” mentre la seconda riguarda la “constanza non insuperbire”. Ad esse sono dedicate, rispettivamente, il settimo e il quinto capitolo del De maiestate. Secondo l’autore, la costanza è un baluardo non solo contro la superbia, ma anche contro lo scoraggiamento. L’umanista mette infatti in stretta relazione la costanza con la “franchezza”. La virtù, quindi, deve bastare a se stessa, così che non ci si abbatta per le avversità né si insuperbisca nelle congiunture favorevoli.
La costanza è una virtù che provoca anche effetti visibili sulla persona che ne è dotata: dall’aspetto fino al modo di parlare. Secondo Maio, rimembrare «li tanti minacci della malvasa sorte» sarebbe solo un riaprire vecchie ferite, pur dicendosi sicuro del fatto che Ferrane non se ne avrebbe a male, soprattutto vista la «incredibile saldezza» (p. 70) con cui le ha affrontate a suo tempo.
La “constanza non insuperbire”
Un capitolo specifico, anche se breve, Maio lo dedica alla costanza di non insuperbire. Al principio di questo capitolo, il settimo, l’umanista riprende ancora una volta il tema della lotta alla fortuna essendo stata, quest’ultima, più volte sconfitta da Ferrante. Tuttavia il successo, ottenuto grazie alla sorte o alla propria virtù, può facilmente indurre alla superbia. Un pericolo, questo, che il sovrano sembra avere del tutto scongiurato. Infatti si legge:
né la glora elato, né la potenza superbo, né la sublimità de l’altrui umilitate te fe’ dispregiatore, ma sempre in equale grado quello medesimo quale sempre fusti, come per sua natura maiestà recerca, sempre modesto e grave (p. 82).
Per Maio, però, è la ricchezza la principale causa delle superbia. Il rapporto con le ricchezze, quindi, è importante, anche perché esse possono dare un’illusione di magnanimità anche a chi è semplicemente ricco. Un tema, quello dei finti magnanimi, che Maio riprende dall’Etica nicomachea affermando la pericolosità della ricchezza che – senza virtù – diventa esca di vizi.
Ettore Barra